Cure palliative per ridurre l’angoscia di morte

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Doctor talking with aged patientLa vita che volge al termine è un momento ineluttabile della nostra esistenza ma, quando ci si avvicina all’inevitabile evento le domande, i dubbi e le perplessità prendono il sopravvento nel malato terminale che, angosciandosi ancora di più per la sua consapevolezza, non fa altro che aumentare la propria sofferenza fisica e mentale. Proprio per questo motivo, molto utili per rispondere a quesiti ai quali la medicina ufficiale non si avvicina nemmeno, sono le cure complementari, ovvero tecniche, azioni, ma anche solo atteggiamenti e pensieri in grado di cogliere stati d’animo, paure, aspettative e speranze del malato nelle ultime fasi della sua vita. Lucia Mangani, oncologo dell’Asl n. 10 di Firenze, spiega che le cure palliative sono una grande risorsa per il malato terminale e la sua famiglia, ma, comportano un dispendio di energia psichica ed emotiva per i medici e gli operatori sanitari che si occupano di questo compito. «Vi è un legame molto stretto tra dolore e sofferenza –spiega Mangani -. Il disagio psicologico aumenta la percezione del dolore; riuscire a ridurre l’angoscia di morte, che spesso accompagna il paziente oncologico, attraverso l’impiego di tecniche complementari, permette anche di controllare il dolore fisico, che può risultare difficile da lenire anche con i più potenti farmaci». Ma non sono solo i pazienti ad avere crolli emotivi e psicologici, infatti, per superare, i momenti difficili, anche i medici e gli operatori, molte volte, ricorrono a queste tecniche.
Solo negli ultimi anni, però, iniziano a far il loro ingresso nelle aule accademiche i primi master in cure palliative, in precedenza, invece, i medici, gli infermieri e gli OSS, si formavano sul campo. Ma cosa dovrebbe fare e come si dovrebbe comportare un medico interessato ad avvicinarsi a queste cure? A spiegarlo è Annamaria Marzi, responsabile dell’Hospice Casa Madonna dell’Uliveto di Reggio Emilia: «Dovrebbe considerare la propria missione professionale in modo diverso: non più soltanto come guerra alla malattia, ma anche come un’alleanza con il paziente. Il medico, allargando i propri orizzonti, può iniziare a considerare l’uomo non più solo nella sua fisicità, ma anche nella sua dimensione globale» e di conseguenza, guardare anche all’interno della persona cercando di capirla e magari, avvalendosi anche di uno psicologo che gli permetta di seguire al meglio il percorso del malato. Importantissime, nelle cure palliative, sono le diverse culture, ma, a farla da padrone, sono sicuramente le culture tibetane e buddhiste, che, con le loro innumerevoli tecniche di rilassamento e meditazione, permettono di distendere la mente, allontanando il pensiero dal malessere che si sta vivendo. «Attraverso un addestramento che si serve di tecniche meditative derivate dal corpus tibetano, il personale impara a svolgere le proprie mansioni da uno stato di profonda empatia, lucidità e compassione, pace e apertura all’ascolto: lo stesso che, all’avvicinarsi della morte, va affermandosi per un processo naturale nel morente, come spiega in modo molto accurato la medicina tibetana. Tra malato e curante si instaura un senso di empatia che trascende la dinamica abituale di soggetto, oggetto e azione che necessariamente intercorre tra i due». A spiegarlo è Daniela Muggia, direttrice dell’associazione Tonglen, linguista di formazione e tanatologia di professione, che sottolinea, inoltre, come nella nostra società la morte sia ancora un tabù. «Se ne ha la prova dalle numerose espressioni linguistiche che la nostra civiltà ha elaborato per denotarla: lasciano questa valle di lacrime, mancano all’affetto dei loro cari, si spengono». E dunque, per accompagnare in serenità, per quanto possibile, e con accettazione i morenti alla morte, è giusto far ricorso a cure complementari che costruiscono un percorso di consapevolezza fondato sulla quiete interiore.