Troppi farmaci, troppa medicina: oggi meno è più

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L’uso di più farmaci da parte, soprattutto ma non solo, dei componenti anziani della popolazione è un problema enorme della sanità pubblica. La “polifarmacia” viene definita come l’uso di almeno 5 medicinali contemporaneamente e riguarda, secondo i dati USA almeno il 40% degli americani anziani, e il 12% con età maggiore dei 65 anni arriva ad utilizzare dieci o più farmaci al giorno. Studi analoghi realizzati in paesi europei giungono alle stesse conclusioni. Anche i dati italiani sul consumo di farmaci sembrano andare nella stessa direzione. Infatti nei primi 9 mesi del 2012 gli italiani hanno acquistato in media 22 confezioni di medicinali a testa: 1 miliardo e 368 milioni in tutto e la spesa farmaceutica nazionale complessiva è stata pari a 19,2 miliardi di euro, secondo quanto pubblicato dal “Rapporto sull’uso dei farmaci in Italia”.
Le conseguenze non sono solo economiche. Il problema vero è che esistono numerose, anzi, infinite possibilità di interazioni fra i farmaci che possono determinare sia l’inefficacia di alcuni di questi così come un potenziamento della loro attività farmacologica e quindi lo sviluppo di reazioni avverse. Infatti questo rischio nei soggetti che assumono 5 o più farmaci è aumentato del 60% e negli Stati Uniti il numero delle reazioni avverse ai farmaci è raddoppiato dal 2000 al 2009, raggiungendo la cifra di circa 500.000 per anno.
Queste sono probabilmente alcune delle ragioni che hanno spinto il prestigioso British Medical Journal a riprendere un tema affrontato già 10 anni fa e chiedersi, e chiedere a tutto il mondo medico, se non ci sia un eccesso di medicalizzazione della vita quotidiana. Oggi il BMJ ritornando sull’argomento elimina qualsiasi dubbio sulla risposta: gli eccessi, inutili e molto spesso dannosi, sono sempre più numerosi. Siamo ormai all’eccesso di esami, di diagnosi e, soprattutto, di terapie. Per questo sono state attivate iniziative come “Less is more” (meno è più) della rivista JAMA e come “Choosing Wisely” (scegliere con saggezza) sostenuta dall’American Board of Internal Medicine Foundation.
Viene quindi riconosciuto ufficialmente che esiste un problema più o meno evidente di sovradiagnosi in un’ampia gamma di condizioni diffuse, tra cui, cita il BMJ, il cancro della prostata e della tiroide, l’asma, nefropatia cronica e l’ADHD (Attention deficit hyperactivity disorder), al punto di affermare che di questi tempi la sovradiagnosi non è più l’eccezione ma è ormai diventata la norma.
Ne parliamo perché in questo momento è imminente, dopo undici anni di lavoro, la pubblicazione Dsm-IV (Diagnostic and statistical manual of mental disorders), l’ultima revisione del più diffuso manuale di riferimento degli psichiatri di tutto il mondo che in questa edizione classifica un numero di disturbi mentali pari almeno a tre volte quello della prima edizione, e da più parti viene segnalato il rischio (ennesimo) di una massiccia sovradiagnosi e dannosi eccessi terapeutici conseguenti alla continua espansione delle definizioni di disturbo mentale.
Si è detto che era necessario adeguare i criteri di diagnosi e adeguarli ai tempi attuali, ma l’impressione generale è che il motivo principale che giustifica la necessità di un nuovo testo e le tante diagnosi aggiunte siano dettate dall’esigenza delle compagnie di assicurazione, estremamente potenti negli Stati Uniti, di avere sempre una diagnosi secondo i criteri del Dsm prima di contribuire ai costi delle terapie, e dalla maggiore facilità che hanno i ricercatori nel trovare i finanziamenti per le loro ricerche se riguardano una malattia formalmente riconosciuta dal manuale.
Naturalmente il rischio che si corre è che questa mania etichettatoria, ovvero il porre al centro dell’attenzione in modo assoluto e ossessivo la malattia e non il malato, induca gli psichiatri a confondere e interpretare stati d’animo come la collera o la tristezza come un disturbo mentale, alimentando così la tendenza alla sovradiagnosi e una eccessiva medicalizzazione, e favorire così di fatto anche il fenomeno del “disease mongering”, ovvero la mercificazione della malattia.
Giova in conclusione ricordare che proprio in questo periodo sono usciti i dati riguardanti gli indicatori di salute della popolazione in un paese come Cuba, considerato in campo sanitario allo stesso livello di molti paesi occidentali ad alto sviluppo socio-economico, che si riferiscono al cosiddetto “periodo especial” attraversato dal paese negli anni ’90 dopo la caduta del blocco socialista e che sono stati confrontati con quelli attuali. Il cambiamento obbligato di allora degli stili di vita della popolazione, dall’impossibilità di utilizzare mezzi a motore per la scarsezza di benzina alla riduzione dei grassi nella dieta, ma anche la diminuzione del consumo di farmaci e il conseguente crescente ricorso alle terapie naturali, avevano portato a un forte riduzione delle percentuali di malattie cardiovascolari e diabete, che in epoca attuale, essendo il paese tornato a un livello di maggiore normalità, hanno ripreso decisamente a aumentare.
A questo punto vale la pena di domandarsi, non senza ironia, se la crisi globale che stiamo attraversando soprattutto in Europa e di cui non si intravede la fine, potrà rivelarsi anche qui da noi un toccasana per la nostra salute.

Elio Rossi