Biomedicine e medicine non convenzionali, analisi di due diversi paradigmi

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Spesso è il paziente a far da ponte fra due sistemi di cura che hanno alla base paradigmi diversi. Affiancandoli, possono dare origine a sinergie oppure a conflitti

“Forse avrei bisogno dell’agopuntura…”. “Con l’osteopatia potrei risolvere il mio problema?”. “Sto prendendo i fiori di Bach per dormire!”.
Quanti medici di medicina generale hanno sentito i loro pazienti pronunciare queste frasi? Spesso è questo il modo in cui la medicina generale, che chiameremo biomedicina per il suo stretto rapporto con la biologia, entra in contatto con le medicine non convenzionali.
Il risultato? Il più delle volte il medico di medicina generale sbuffa e passa oltre, il paziente non si sente ascoltato, al terapeuta che pratica le terapie non convenzionali non viene riconosciuta l’adeguata competenza. Tutti scontenti quindi.
La “colpa” però non è di nessuno, perché a “parlarsi” tramite il paziente sono approcci di cura che hanno alla base due diversi paradigmi e non è affatto facile integrarli. Quando si riesce a farlo, il medico di medicina generale e lo specialista delle “altre” cure possono unire i loro approcci per offrire al paziente una terapia davvero “integrata”. Quando ciò non accade, il primo a sentirsi a disagio è il paziente e i terapeuti restano con la sensazione di fatica nel praticare la professione.

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Lo stesso punto di partenza

Non lasciamoci ingannare da visioni manichee: quando si confrontano due paradigmi in medicina non esiste un approccio giusto e uno sbagliato. Esiste invece un unico punto di partenza che è il desiderio di curare il malato. Un desiderio che si manifesta in modi differenti a causa del paradigma sotteso ai diversi sistemi di cura.
Il più delle volte, ma non sempre, il medico di medicina generale e chi pratica la medicina non convenzionale hanno un medesimo background universitario, ma a un certo punto, nel corso della vita del medico che sceglie le terapie non convenzionali qualcosa cambia: un incontro, un’esperienza personale, un corso di aggiornamento, un particolare caso clinico… Qualcosa si modifica e dal quel momento egli si affida al paradigma “non convenzionale”.
Il medico di medicina generale invece continua il proprio percorso nella biomedicina con coerenza e determinazione, praticando quel modo di curare che sembra appartenere alla tradizione.
Sembra, perché in realtà, se si vuol guardare davvero ai fatti basandosi sulla tradizione autentica, la medicina antica (la ippocratica, per esempio) aveva un approccio molto simile a quello del medico di medicina non convenzionale. Col tempo però gli approcci si sono trasformati e si è aperta una forbice che ancora non sembra il momento di richiudere per tornare a un’unica via con diverse sfumature.
Occorre dire inoltre che l’approccio alla cura si complica quando chi pratica le terapie non convenzionali non possiede una laurea in medicina: in questo caso possono nascere conflitti fra i terapeuti, diventa difficile stabilire le rispettive competenze e anche il paziente rimane disorientato.

I confini fra i diversi approcci

Quando chi pratica le medicine non convenzionali non è medico – ciò non accade per “abuso della professione” quanto piuttosto perché alcuni percorsi di formazione non richiedono questo titolo di studio – la comunicazione fra i diversi terapeuti diventa difficile e il percorso di cura per il paziente tortuoso.
È il caso, per esempio, degli osteopati, dei naturopati, di chi usa le floriterapie, di chi pratica il massaggio shiatsu e il tuina: questi terapeuti non sono medici, ma ciascuno a suo modo… cura.
Se alcune medicine manuali, come ad esempio l’osteopatia, vengono più o meno tollerate dalla biomedicina; per altre sembra impossibile un’integrazione.
La mancanza di un titolo equipollente alla laurea in medicina è un elemento che inasprisce il conflitto fra i diversi operatori della salute.
Che fare allora per favorire una integrazione armoniosa e la soddisfazione dei professionisti della salute e del paziente?
Una regola di comportamento è difficile da individuare, ma è importante almeno sgomberare il campo da possibili malintesi che complicano le relazioni.
Nelle dinamiche che si osservano in questi casi si possono infatti individuare alcuni tipici fraintendimenti: in primo luogo, il paziente può non avere gli strumenti per scegliere rispetto alla propria salute, se non ha ben chiaro i confini delle diverse terapie a cui si affida pur nel suo legittimo diritto di “integrare”.
Ne consegue che tocchi al terapeuta non convenzionale (dando per scontate la sua correttezza ed etica) chiarire il proprio approccio supportandolo con informazioni relative anche al suo percorso di studi. Bisogna che anche il medico di medicina generale resti aperto a un “approccio integrato”, per evitare che il paziente si senta giudicato e non accolto. Ciò non significa obbligare il medico di medicina generale ad accettare una visione della cura che non gli appartiene, significa piuttosto mantenere una sospensione del giudizio che gli consenta di restare “in scia” del paziente per aiutarlo al meglio a recuperare la salute.
Resta il fatto che non è così semplice stabilire dei confini a priori, perché la biomedicina e le altre cure si fondano su paradigmi e modelli molto diversi fra loro, che non sono semplici né da confrontare né da integrare.
Conviene quindi conoscere ed esplorare le peculiarità dei diversi paradigmi per una maggiore comprensione del tema.

Riduzionismo scientifico e olismo

La biomedicina si fonda sul paradigma del “riduzionismo scientifico”, in cui ogni aspetto viene ricondotto a un approccio strettamente scientifico per l’appunto; mentre le medicine non convenzionali poggiano sull’olismo, ovvero una visione globale dell’uomo che tiene conto anche dell’ambiente naturale e relazionale in cui egli vive. Né un approccio né l’altro sono giusti o sbagliati a priori: in alcune situazioni la scienza, e solo la scienza, può guidare la pratica medica: pensiamo, per esempio, all’uso degli antibiotici quando è in corso un’infezione o ai trapianti per offrire un’opportunità ulteriore di vita al paziente. Altre volte, invece, un approccio olistico, attento all’ambiente relazionale in cui la persona vive o lavora, possono fare molto di più di una cura standard prescritta seguendo solo le evidenze scientifiche.
Intendiamoci, quando i farmaci sono necessari devono essere somministrati senza esitare, ma anch’essi finiscono per avere maggiore efficacia sul paziente se accompagnati dalla sensazione di “essere visti”, ascoltati e compresi dal medico.

Una diversa concezione di salute

Per il medico di medicina generale la salute è, sostanzialmente, l’assenza di sintomi e di malattie; mentre il terapeuta non convenzionale include nei fondamenti del benessere anche una certa realizzazione psicoemotiva e spirituale dell’individuo.
Partendo da diversi presupposti, succede che per il medico di medicina generale il disturbo, la malattia, il dolore che ne consegue, siano da neutralizzare; mentre per il terapeuta non convenzionale la sofferenza è guardata in un’ottica più ampia, che include non solo il fisico, ma anche la psiche e persino lo spirito. E in effetti, per il paziente, che lo espliciti oppure no, la malattia impone sempre una “ricerca di senso” e il bisogno di trovare la risposta alla domanda “perché a me?”, come ci insegna l’antropologia medica.
Partendo da visioni diverse, sarà differente anche la presa in cura del malato: il medico di medicina generale si concentrerà su un’accurata raccolta dell’anamnesi e sulle indagini strumentali e di laboratorio se ve ne sono, così da acquisire quei parametri “digitali” che quantifichino lo star male dell’individuo. Il terapeuta che pratica la medicina non convenzionale userà gli esiti degli esami per inserirli in un contesto “analogico” che si esprime nel “modo”, del tutto personale, di star male dell’individuo. Se il terapeuta delle “altre cure” non è un medico, è indispensabile che abbia l’umiltà, guidata dal senso di responsabilità, di chiedere un consulto a chi possiede una laurea in medicina.

Fondamenti differenti

Procedendo nella distinzione fra paradigmi, la biomedicina che si fonda sulle evidenze scientifiche viene definita una Evidence Based Medicine, mentre la medicina non convenzionale si può dire che abbia un approccio del tipo Narrative Based Medicine; diversa importanza quindi viene assegnata alle prove di efficacia rispetto a come il malato racconta del proprio star male.
Il terapeuta di medicine non convenzionali integrerà le conoscenze scientifiche in una modalità d’intervento personalizzata per rispondere al bisogno di salute di quel determinato paziente, con l’impegno di consultarsi con un medico nel caso non sia chiaro come procedere in uno specifico caso. Dal canto suo, il medico di medicina generale non trascurerà l’individualità del paziente, ma la inserirà sempre in un quadro più vasto, in una casistica studiata e documentata.
Secondo l’antropologia medica (Harvard School) i diversi approcci vengono chiamati Disease per riferirsi a una focalizzazione sulla malattia tipica della biomedicina e Illness quando si concentra sull’esperienza individuale e soggettiva della malattia che è il fondamento di molte terapie non convenzionali.

La relazione col malato

Nei diversi approcci è differente anche il ruolo che assume il paziente: nel modello centrato sulla malattia la persona che manifesta i sintomi ha un ruolo piuttosto passivo, ascolta le indicazioni del medico e le mette in pratica. Nel modello centrato sull’esperienza della malattia, il paziente è al centro e con il proprio “sapere” rispetto allo star male. Ne nasce in questo modo un rapporto paritario, che invece nella biomedicina è connotato da una maggiore asimmetria.
Occorre sottolineare come il “far da ponte” del paziente fra i due paradigmi possa essere all’origine di conflitti. Da un lato, infatti, l’emancipazione del paziente rispetto al medico ha mostrato di recente un non edificante rovescio della medaglia che si manifesta con una certa aggressività del malato verso il medico; il confronto non di rado finisce per concludersi nelle aule dei tribunali, costringendo i medici a una pratica professionale sempre più difensiva. Capita altresì che nelle medicine non convenzionali siano i pazienti a compiere un “salto di paradigma” e, per esempio, pretendano dalle cure olistiche la stessa rapidità di azione che si può verificare nell’ambito della biomedicina con l’uso di farmaci.

L’auspicabile punto di incontro

Alcuni tentativi di far convergere i diversi paradigmi ci sono stati: vi sono Regioni dove la biomedicina e le medicine non convenzionali convivono persino nelle strutture pubbliche. Purtroppo, oltre a essere un’integrazione avvenuta a macchia di leopardo non ha portato a una contaminazione efficace fra i paradigmi che continuano a rimare distinti e separati. Eppure, sarebbe importante che le diverse medicine subissero maggiori contaminazioni senza per questo essere snaturate nelle loro fondamenta: l’aspetto della personalizzazione della cura, la valutazione simbolica del sintomo potrebbero arricchire la biomedicina, così come un approccio più rigoroso, che tenga conto maggiormente delle evidenze scientifiche sarebbe utile alle terapie non convenzionali.
È importante che questa integrazione avvenga anche nel modo di porsi del paziente, che spesso tende a separare nettamente i due sistemi rifiutando in modo rigido l’uno o l’altro approccio.
Vi sono poi ambiti, come per esempio l’oncologia e le malattie cronico degenerative dove sarebbe fondamentale un dialogo e un’autentica contaminazione fra paradigmi: la biomedicina potrebbe continuare a esprimersi nella scientificità dell’approccio e nella scelta di terapie innovative; mentre le cure non convenzionali potrebbero ridurre gli effetti iatrogeni degli interventi più aggressivi. Se il malato sentisse che le medicine non sono in lotta fra loro, ma che ciascuna secondo il proprio paradigma può offrirgli il meglio, eviterebbe di “pasticciare”, come purtroppo spesso accade, usando terapie complementari insieme alle cure ufficiali senza che il curante della biomedicina ne sia informato. Se i terapeuti con diversi approcci offrissero una presa in cura davvero integrata si potrebbe raggiungere quello stato di salute che l’Oms stessa definisce come uno stato di completo benessere psicofisico e relazionale e non la semplice assenza di una malattia.

Nicla Vozzella