Digiuno intermittente e artrite reumatoide nelle donne in postmenopausa
L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune cronica caratterizzata da infiammazione articolare e dolore, con una prevalenza globale stimata tra lo 0,5% e l’1%. Nelle donne in postmenopausa, le alterazioni ormonali e l’aumento della massa grassa aggravano lo stato infiammatorio, contribuendo a peggiorare la sintomatologia dell’artrite reumatoide. In questo contesto, la nutrizione assume un ruolo sempre più rilevante nella gestione della malattia. Uno studio clinico randomizzato e controllato ha valutato gli effetti del digiuno intermittente su qualità della vita, sintomi clinici, infiammazione e stress ossidativo in 44 donne sovrappeso o obese in postmenopausa con artrite reumatoide. Le partecipanti sono state suddivise in due gruppi: uno ha seguito un regime di digiuno intermittente 16/8 (digiuno per 16 ore al giorno) per otto settimane, l’altro ha mantenuto l’alimentazione abituale. L’outcome primario era la variazione del punteggio al questionario HAQ-DI (Health Assessment Questionnaire–Disability Index), mentre tra gli outcome secondari figuravano indice di massa corporea, rigidità articolare mattutina, indici clinici e biomarcatori infiammatori e ossidativi. I risultati hanno mostrato che il digiuno intermittente ha prodotto un miglioramento significativo dell’indice di massa corporea, del punteggio DAS-28 (Disease Activity Score), del CDAI (Crohn’s Disease Activity Index) e dell’HAQ-DI, suggerendo un impatto positivo sullo stato clinico generale delle pazienti. Non sono emerse invece differenze significative nei marker infiammatori e ossidativi. Insomma, il digiuno intermittente può rappresentare un’opzione nutrizionale utile nel migliorare alcuni aspetti clinici dell’artrite reumatoide in pazienti postmenopausali in sovrappeso, anche se non influisce direttamente sui parametri biochimici infiammatori. Sono necessari ulteriori studi per chiarire il potenziale terapeutico del digiuno intermittente in questa popolazione.
Studio effettuato da ricercatori dell’Università di Scienze Mediche di Teheran, in Iran. Ranjbar M, Shab-Bidar S, Rostamian A, et al. Effects of intermittent fasting diet in overweight and obese postmenopausal women with rheumatoid arthritis: A randomized controlled clinical trial. Complement Ther Med. 2025 Aug;91:103189.

Progressi nella gestione dei disturbi dell’alimentazione in età evolutiva
I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione rappresentano condizioni psichiatriche complesse che esordiscono spesso durante l’infanzia e l’adolescenza, fasi cruciali per lo sviluppo. Una nuova ricerca israeliana si è focalizzata sulle prospettive di trattamento di questi disturbi ormai estremamente diffusi, a partire dalla diagnosi precoce, che però risulta difficile a causa dell’eterogeneità clinica, della frequente comorbidità psichiatrica e della sovrapposizione tra forme come anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata e disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. Negli ultimi anni, l’aggiornamento dei criteri diagnostici (DSM-5, ICD-11) e l’adozione di strumenti di valutazione più specifici hanno migliorato l’identificazione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in età evolutiva. Tuttavia, rimangono criticità importanti: carenza di trattamenti farmacologici mirati, disomogeneità nell’accesso ai servizi specialistici e necessità di modelli terapeutici multidisciplinari e centrati sul paziente. Le evidenze attuali confermano l’efficacia di approcci psicoterapeutici come la Family-Based Therapy, che coinvolge attivamente la famiglia nel percorso di cura. La riabilitazione nutrizionale, elemento cardine della terapia, richiede un monitoraggio medico costante e il contributo di professionisti esperti. In alcuni casi, l’uso mirato degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) può supportare il trattamento delle comorbidità ansioso-depressive. Infine, l’adozione di strumenti digitali (telemedicina, app per il monitoraggio) si sta rivelando utile per ampliare l’accesso alle cure, pur richiedendo ulteriori studi su efficacia e sicurezza. La gestione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in età evolutiva impone un approccio integrato, tempestivo e attento alle differenze individuali, con particolare attenzione alla prevenzione e al sostegno a lungo termine.
Studio effettuato da un ricercatore del Tel-Hai Academic College, in Israele. Horovitz O. Advancements in the Diagnosis and Treatment of Eating Disorders in Children and Adolescents: Challenges, Progress, and Future Directions. Nutrients. 2025 May 21;17(10):1744.
Obesità e fragilità, un nuovo indicatore per fare chiarezza
L’indice di massa corporea (BMI) è da decenni il parametro di riferimento per misurare l’obesità. Ma è davvero il più adatto a valutare i rischi per la salute nelle persone che invecchiano? Un nuovo studio condotto su oltre 10mila adulti cinesi sopra i 45 anni suggerisce di no. Al suo posto, entra in scena un nuovo indicatore: il Weight-Adjusted Waist Index (WWI), che tiene conto non solo del peso, ma anche della circonferenza addominale in proporzione. Il tema centrale dello studio è la fragilità, una condizione tipica dell’età avanzata che comporta una ridotta resistenza dello stato di salute e una maggiore vulnerabilità a malattie e disabilità. In quanto crescente problema di salute pubblica a livello globale, soprattutto nei Paesi e nelle regioni in rapido invecchiamento, la fragilità rappresenta una sfida significativa per la pratica clinica e la sanità pubblica. I ricercatori hanno scoperto che un aumento del WWI è associato a un’accelerazione del processo di fragilità, con effetti evidenti e costanti indipendentemente dallo stato metabolico della persona. In altre parole, l’obesità centrale (accumulo di grasso addominale) sembra influire negativamente sulla fragilità a prescindere dalla presenza o meno di diabete, ipertensione o colesterolo alto. Al contrario, l’indice di massa corporea mostra una relazione meno chiara: in alcuni casi sembra legato alla fragilità, in altri no, soprattutto quando si considera la salute metabolica. Inoltre, BMI non distingue tra massa muscolare e massa grassa, e può risultare fuorviante in soggetti con molta muscolatura o con obesità viscerale nascosta. Questo studio sottolinea, quindi, l’importanza di andare oltre l’indice tradizionalmente utilizzato per valutare i rischi legati all’obesità negli anziani. Il WWI, più sensibile alla distribuzione del grasso corporeo, si rivela uno strumento più accurato per individuare le persone a rischio di fragilità, aprendo nuove prospettive nella prevenzione e nella gestione dell’invecchiamento.
Studio effettuato da ricercatori della Southern University of Science and Technology, a Shenzhen, in Cina. Zeng P, Jiang C, Yin H, et al. Weight-adjusted waist index and deficit accumulation frailty trajectories in middle-aged and older adults: a longitudinal study. Nutr J. 2025 Jun 3;24(1):89.

I rimedi naturali nel recupero dopo un ictus
L’ictus è una delle principali cause di disabilità nel mondo, e le sue conseguenze possono compromettere a lungo la memoria, il linguaggio e la qualità della vita. Negli ultimi anni, la ricerca scientifica si è interessata sempre di più ai possibili benefici di estratti vegetali usati nella medicina tradizionale per supportare il recupero dopo un ictus. Uno studio recente ha analizzato l’efficacia di nove estratti naturali su circa 6.600 pazienti colpiti da ictus, raccogliendo i dati di 48 studi clinici controllati. Gli estratti valutati sono: Ginkgo biloba, ginsenosidi (dal ginseng), berberina, iperico (erba di San Giovanni), resveratrolo, gastrodina, zafferano (Crocus sativus), moringa e notoginseng (Panax Notoginseng). I ricercatori hanno valutato diversi aspetti del recupero post-ictus, come la capacità di movimento, le attività quotidiane, e soprattutto le funzioni cognitive attraverso test specifici. I risultati sono interessanti: l’iperico è risultato il più efficace nel migliorare le funzioni quotidiane e ridurre i sintomi neurologici. Ma anche la berberina ha mostrato ottimi risultati nel ridurre la disabilità residua. Infine, i ginsenosidi si sono distinti per il miglioramento delle capacità cognitive e dell’autonomia. Si tratta, dunque, di risultati positivi ma preliminari e gli autori dello studio sottolineano la necessità di ulteriori ricerche, soprattutto per chiarire quali dosaggi siano più efficaci, valutare gli effetti a lungo termine e comprendere come fattori esterni (come il supporto sociale) possano influenzare i benefici dei trattamenti. In conclusione, alcuni estratti vegetali tradizionali sembrano offrire un supporto concreto nella riabilitazione dopo un ictus, soprattutto per migliorare la memoria, l’autonomia e la qualità della vita. Tuttavia, è importante ricordare che questi rimedi vanno considerati solo come complemento alle terapie mediche e fisioterapiche tradizionali, e vanno sempre discussi con il proprio medico prima dell’uso.
Studio effettuato da ricercatori dell’Università Zhejiang di Hangzhou, in Cina. Li J, Jin J, Cheng Y, Zhang Y, et al. Systematic Review and Network Meta-Analysis of the Effects of Plant Extracts on Cognitive Function and Quality of Life in Stroke Patients. Phytother Res. 2025 May;39(5):2110-2130.


