Libertà terapeutica e rifiuto della cura

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È di pochi giorni fa la notizia della morte di una paziente testimone di Geova che avrebbe potuto salvarsi se si fosse sottoposta a una trasfusione di sangue, ma che aveva rifiutato la cura per non violare i principi della propria religione. La rabbia dei sanitari e il loro senso di impotenza per non essere potuti intervenire per un “pregiudizio medievale” ha portato il caso alla ribalta della cronaca, suscitando un ampio dibattito fra il pubblico e tra i sanitari.
Di recente inoltre la Consulta si è pronunciata in merito al caso della morte del dj Fabo. La Corte costituzionale ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Ne parliamo in questa sede perché questi due casi, pur nella loro diversità, ci costringono a confrontarci con una questione che ci tocca da vicino: la libertà di scelta terapeutica e in particolare con la decisione del paziente di rifiutare, in un caso terapie salvavita, e nell’altro di staccare la spina di macchine che lo tengono in vita o addirittura togliersi la vita. Non è un problema solo teorico e non è solo una questione etica o religiosa, ma ha importanti implicazioni pratiche. Succede infatti, con frequenza variabile a seconda del settore e delle attività cliniche in cui il medico, compreso quello di medicina complementare, è impegnato, di dover affrontare problemi che attengono alla libertà di cura e alla valutazione del rischio clinico che certe scelte terapeutiche comportano. Certamente è raro che il medico di medicina complementare si debba confrontare con situazioni in cui la scelta è la vita e la morte, tra il suicidio passivo che proviene da una scelta di rifiuto della cura e il suicidio attivo che il paziente va a cercare in paesi come la Svizzera o l’Olanda, ma spesso accade che arrivino richieste relative a famigliari dei pazienti che vogliono avere un parere di conferma o un pensiero ‘alternativo’ su ciò che i sanitari hanno proposto per un paziente grave, gravissimo, se non terminale. Qual è dunque il confine tra accanimento terapeutico e ultima speranza della terapia? La medicina è riuscita a dilatare lo spazio fra la vita e la morte, creando però un limbo dove a un certo punto non succede più nulla di risolutivo, ma ogni giorno succede qualcosa e non è mai niente di buono. Nella stragrande maggioranza di questi casi, che si tratti degli esiti di un ictus o di un tumore aggressivo con una progressione lenta quanto inarrestabile, si crea una situazione devastante per tutti i membri della famiglia. Un lutto diluito, centellinato, che lascia la famiglia sospesa fra il desiderio di porre fine in qualche modo alle infinite sofferenze del paziente e alle conseguenze su chi lo circonda e assiste e il rimanere aggrappati alla vita del congiunto, al volerlo presente anche se in stato vegetativo o quando la comunicazione con il mondo esterno è ridotta a un lumicino o del tutto assente. In queste situazioni ci viene chiesto un parere, qualche volta una soluzione (sempre nei limiti imposti dalla legge naturalmente), e anche noi come medici non convenzionali ci chiediamo quale debba essere il nostro atteggiamento, quale la postura da tenere fra un rifiuto terapeutico sempre legittimo secondo l’Articolo 32 della Costituzione e il codice deontologico, ma ancor di più il buon senso, che ci impone di cercare sempre il bene del paziente, e se una guarigione non è più possibile, di non lasciarlo solo. Il dibattito, anche nel nostro settore, è aperto.

Elio Rossi, Direttore scientifico di Medicina Integrata