Recenti inchieste giornalistiche hanno portato alla ribalta della cronaca il problema della sicurezza dei dispositivi medici (valvole cardiache, protesi dell’anca, protesi mammarie, erogatori di insulina ecc.), un mercato stimato di 400 miliardi di dollari all’anno nel mondo.
Si consideri ad esempio l’impianto valvolare aortico transcatetere (TAVI; una procedura per cui valvole biologiche sono inserite attraverso catetere nella valvola cardiaca): secondo dati recenti ricavati dai registri europei, la mortalità a tre anni dei pazienti che hanno subito questa procedura è maggiore rispetto a quella dei pazienti ai quali la valvola è stata sostituita per via chirurgica con un intervento a cuore aperto. In Italia questa procedura, la cui funzionalità sui tempi lunghi è ancora in corso di valutazione, sarebbe utilizzata anche nei pazienti più giovani in misura maggiore rispetto al resto d’Europa. L’unico registro che raccoglie questi dati è promosso e gestito dalla stessa azienda che produce le valvole biologiche. Il problema non risiede dunque nella valutazione dell’efficacia di questi dispositivi, ma di chi svolge questi controlli e chi ne monitora i risultati.
Secondo l’International Medical Devices Database (IMDD) creato dai giornalisti dell’ICIJ, il consorzio giornalistico che da anni monitora il fenomeno, dal 2008 al 2017 negli Stati Uniti sarebbero state almeno 82mila le vittime di dispositivi mal funzionanti e 1,7 milioni i pazienti che hanno subito lesioni.
In Italia, prendendo in esame in particolare una membrana artificiale impiegata per risolvere i problemi dei bambini nati con una tetralogia di Fallot, i decessi sarebbero almeno sei e circa 300 le lesioni riportate nell’ultimo decennio dopo l’impianto di questo device. Si tratta di un fenomeno, per quanto grave nelle sue possibili conseguenze, che riguarda una quota importante ma ancora minima di cittadini.
Se invece parliamo di tumore al seno e di protesi sostitutive impiantate nelle donne mastectomizzate, negli Stati Uniti si contano 39 morti e oltre 14mila danni causati dalle protesi del tipo ruvido o macro-testurizzate, le quali sono anche sospettate di aumentare il rischio di sviluppare una rara forma di linfoma (il linfoma anablastico a grandi cellule). Questi device rappresentano il 95% delle circa 51.000 protesi impiantate in Italia nel 2018.
Anche in questo caso il problema è il controllo e il monitoraggio del fenomeno. Già nel 2012 il ministro della Salute in carica, Renato Balduzzi aveva disposto l’istituzione di un registro
obbligatorio delle protesi al seno, mai attivato.
In compenso, dovrebbe essere in dirittura di arrivo, pur con grandi contrasti in seno alla maggioranza che lo dovrebbe approvare, il cosiddetto Sunshine Act, un database che traccia i finanziamenti privati a tutti gli operatori del Sistema Sanitario Nazionale.
Inoltre, il ministero della Salute ha recentemente annunciato di volersi dotare di un registro unico obbligatorio delle protesi mediche impiantate nel corpo dei pazienti. Si vedrà a breve se le proposte si concretizzeranno.
Pur non volendo fare una facile dietrologia è però scontato pensare che, in una situazione come quella appena descritta, si sia formata una rete solida di complicità fra la grande industria del farmaco e gli attori, anche istituzionali, di questa partita, dove i controllori
sono spesso consulenti dei controllati, e gli interessi economici personali e delle aziende vengono sempre prima del benessere dei cittadini e della comunità.
Se così fosse, sarebbe allora lecito pensare che le attività messe in opera negli ultimi anni di contrasto alla diffusione sempre più capillare delle medicine complementari fra la popolazione e anche a livello istituzionale sanitario non siano motivate esclusivamente da un interesse scientifico, ma che siano gli interessi economici a voler prevalere.
Elio Rossi, direttore scientifico di Medicina Integrata