Sono all’incirca una trentina, in alcuni casi ereditarie, le malattie che costituiscono le amiloidosi: patologia rara nel suo complesso, caratterizzata dall’accumulo dannoso nell’organismo di sostanza amiloide, ovvero proteine che in forma di piccole fibrille, per cause diverse, si sviluppano e si depositano in maniera anomala nell’organismo, in diversi organi, compreso il cuore. Di difficile diagnosi e trattamento, può essere letale, specie quando viene misconosciuta, scambiata per semplice insufficienza cardiaca. Oggi avanzamenti scientifici ne hanno consentito un migliore approccio diagnostico-terapeutico, ma gli unmet needs restano ancora molti.
L’amiloidosi
Sono due le forme di amiloidosi cardiaca. Una genetica, l’amiloidosi AL, ereditaria, causata da mutazioni del gene TTR (transtiretina), che si manifesta più precocemente, a partire dai 50 anni, caratterizzata da sintomi sfumati, non specifici ma con elevata sensibilità: astenia, edemi periferici, perdita di peso, dispnea da sforzo, ipotensione ortostatica, macroglossia con impronta dei denti, porpora periorbitaria (Raccon eye).
«Tali segni – spiega Francesco Cappelli, cardiologo, CRR Toscano per lo studio e la cura delle amiloidosi, AOU Careggi, Firenze – sono presenti solo nel 15% dei pazienti cui si possono sommare anche proteinuria non diabetica, tunnel carpale, neuropatia periferica. Le manifestazioni varie, aspecifiche e poco sensibili ne rendono complessa la diagnosi, tanto che il 26% dei pazienti arriva a scoprire la malattia a un anno circa dai sintomi ma il 49% viene visitato da 4 o più medici prima ricevere conferma di amiloidosi cardiaca». La conseguenza è che con il progredire dell’accumulo della proteina, il cuore perde la sua elasticità, diviene sempre più gommoso limitando sensibilmente la capacità di contarsi e rilasciarsi con difficoltà a compiere il proprio lavoro.
La seconda forma è la Amiloidosi TTR wild type: prevalenza e incidenza non sono note, sebbene sia maggiore in alcuni sottogruppi come pazienti anziani con AS, HFpEF (scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata) in cui la prevalenza è del 10-16%, di sesso maschile con una età media alla diagnosi di 70 anni. Clinicamente la forma Wild Type è caratterizzata da cardiomiopatia con pattern diastolico restrittivo, interessamento delle strutture tenosinoviali degli arti superiori, quali il tunnel carpale con il caratteristico formicolio delle tre dita delle mani soprattutto nelle ore notturne e il segno di Popeye in cui cioè il muscolo perde l’aggancio alla spella e si ritrae verso il gomito.
«Riconoscere tali segni, delle vere e proprie Red Flag che possono iniziare a manifestarsi anche 5-10 anni prima dello sviluppo della amiloidosi è fondamentale – prosegue il cardiologo – per una diagnosi e terapia tempestive. Vanno pertanto attenzionati pazienti con una insufficienza cardiaca o con in passato una o due di questi interessamenti sinoviali: tali segni possono essere indicativi per avviare il paziente a una diagnostica di amiloidosi da TTR e non di semplice insufficienza cardiaca dell’anziano a e terapie mirate oggi disponibili».
La presa in carico
Le diagnosi sono oggi sensibilmente aumentate grazie a strumenti diagnostici più agevoli; prima affidata esclusivamente a una biopsia cardiaca, attualmente è possibile avvalersi di un esame del sangue che ricerca e escluda la presenza di specifiche proteine anticorpali depositate nell’organismo che favoriscono l’insorgenza di malattia e di una scintigrafia cardiaca. Approccio di cui è stata dimostrata l’efficacia da studi di letteratura.
«Un primo studio italiano – dichiara Marco Canepa, Università degli Studi di Genova e Ospedale Policlinico San Martino – che ha coinvolto 5 mila pazienti che si erano sottoposti a ecografia cardiaca per motivi di natura diversa da amiloidosi, ha intercettato all’incirca 1.500 soggetti con caratteristiche compatibili con la malattia. Si è dunque provveduto a una selezione, isolando coloro con manifestazioni ancora più specifiche e suggestive per amiloidosi: 217 pazienti, nell’ambito di uno studio clinico controllato, sono stati avviati a un percorso diagnostico mirato che ha portato a rilevare 60 casi di diverse forme di amiloidosi cardiaca. Un altro studio da me coordinato, cui hanno partecipato 17 centri italiani, compreso il Careggi, ha voluto analizzare il percorso compiuto dal paziente prima di arrivare alla diagnosi di TTR wild type al fine di identificare il migliore per giungere a una presa in carico diagnostico- terapeutica quanto più rapida e efficace possibile».
Per arrivare a questo obiettivo occorre tuttavia disporre e organizzare un sistema Hub&Spoke, con centri specializzati e professionisti di elevata expertise. Ovvero concentrando le competenze in pochi centri di riferimento, all’interno di in un network bene collegato erogatore oltre che di cure anche di terapie mirate. Obiettivo è intercettare pazienti con amiloidosi cardiaca con età media di 73 anni nei quali la risposta terapeutica è di elevata efficacia. Anche sul fronte dei trattamenti infatti ci sono nuove opportunità di cura.
«Da diversi anni – precisa Giuseppe Palmiero, UOC Cardiologia, Ospedale dei Colli Monaldi di Napoli – la forma di amiloidosi AL viene trattata con terapie gran parte delle quali traslate da altre malattie ematologiche simili come le discrasie plasmacellulari e da febbraio 2022 disponiamo anche di una terapia per la forma Wild Type, ovvero uno stabilizzatore del tetramero che consente al paziente maggiori chance di sopravvivenza e migliore qualità di vita». inoltre, alcuni trattamenti per la forma di TTR neurologica potranno essere traslati anche alla forma cardiologica ed altri farmaci sono in arrivo. Opportunità diagnostico-terapeutiche che hanno cambiato sensibilmente lo scenario di approccio e le aspettative per l’amiloidosi cardiaca.
Il domani dell’amiloidosi
Il futuro clinico della malattia è dunque roseo, ma ancora non basta. Occorre affinare i centri di alta specialità, in cui incentrare e concentrare le expertise cardiologiche, tuttavia poiché l’amiloidosi è una patologia sistemica che coinvolge più organi, è necessario che tali strutture abbiano al proprio interno, ad esempio per la forma AL, anche ematologi (fondamentali), nutrizionisti, psicologi, neurologi, fisiatri e nefrologi: una équipe multidisciplinare pronta a collaborare a vantaggio del paziente.
«Secondo una visione olistica – conclude Palmiero – occorre mettere il paziente al centro, accentrare in strutture dedicate le competenze di vari esperti migliorando il dialogo fra specialisti, per favorire la presa in carico del paziente, come gli outcome, facendo in modo che il paziente possa fare più visite specialistiche di ambiti diversi in una stessa giornata/seduta, delegando ai centri periferici la fase diagnostica semplice, quella che non richiede l’esecuzione di biopsia e di esami specialistici.
È prioritario, per il futuro, definire e uniformare il trattamento dei centri di riferimento, senza disparità in termini di sanità regionale o di expertise: a tutti i pazienti devono essere garantite le stesse opportunità di cura, indipendentemente dal territorio di residenza. Migliorare la qualità di vita significa non solo trattamento giusto, ma anche ridurre lo stress psicologico e economico per il paziente: obiettivo che va condiviso tra clinici, strutture e istituzioni».