Sono sempre più frequenti, da studi di letteratura e da alcune esperienze di pratica clinica, le attestazioni di efficacia della realtà virtuale, all’interno di specifici protocolli e setting di pazienti, in percorsi di psicoterapia cognitivo-comportamentale, quali il trattamento di disturbi psicotici o ossessivo-compulsivi, o in neuropsicologia per il mantenimento di capacità mnemoniche nell’anziano.

Esiti sovrapponibili

Le evidenze scientifiche più recenti sembrano delineare la realtà virtuale come un possibile strumento per accompagnare la persona nell’apprendimento e gestione di problematiche psico-emotive: l’immersione in un ambiente pseudo-reale attiverebbe le medesime aree cerebrali di un’esposizione in un contesto reale. Il cervello, in buona sostanza, processerebbe le informazioni così come avviene nella realtà. In funzione di questo meccanismo, definito “presenza” dal gruppo di ricerca del Professor Giuseppe Riva, dell’Università Cattolica di Milano, si è cominciato a costruire alcuni modelli per il trattamento di diverse patologie in ambito di neuropsicologia e psicoterapia.

Tra questi sono in sperimentazione alcuni ambienti virtuali per aumentare l’abilità di memoria, in particolare la capacità di orientamento spaziale, in pazienti con demenza senile. L’utilizzo della realtà virtuale consentirebbe di addestrare la persona a muoversi, all’interno di aree e percorsi cittadini, superando una serie di compiti o di ostacoli dapprima semplici, in rapporto a livello cognitivo di base, e via via più complessi. Un “esercizio” che ha l’obiettivo di rallentare il declino cognitivo, rieducando la persona con demenza al riapprendimento di specifiche funzionalità (abilità spaziali, mnemoniche o altro), sfruttando la plasticità cerebrale. Tali protocolli, testati per un periodo di circa 4-6 mesi, mettendo a confronto un gruppo di intervento con quello di controllo, avrebbero dimostrato la potenzialità della realtà virtuale nel contribuire a rallentare il declino cognitivo.

In psicoterapia

Studi di letteratura evidenziano che la realtà virtuale può essere efficacemente integrata in protocolli di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) che prevedano nello specifico due fasi: la prima finalizzata a insegnare alla persona a gestire i sintomi di proprie paure o di contesti che generano disagio e una seconda di esposizione al contesto critico stesso, in cui la persona è chiamata a confrontarsi con le proprie paure. Ed è in questa seconda fase che troverebbe applicazione la realtà virtuale, attivatrice di una paura “protetta”.

La persona viene, infatti, proiettata “dentro” lo stato disturbante, imparando a riconoscere e a reagire al proprio timore di andare in metropolitana o di volare ad esempio, ricreato in un contesto simulato ma assolutamente reale, e sicuro come uno studio medico o un contesto ospedaliero. Tale ambiente virtuale-reale è “terapeutico” anche per il clinico, messo nelle condizioni di monitore in tempo reale le reazioni del proprio paziente e di intervenire tempestivamente, se necessario, nelle varie fasi di esposizione progressiva (dal percorso fino alla metropolitana, all’arrivo davanti ai tornelli, alla salita sul vagone, fino al livello massimo di esposizione alla paura, il viaggio fino a destinazione): tutto senza correre rischi che un ambiente reale, invece, potrebbe presentare.

Un’alternativa alla realtà virtuale potrebbe essere costituita dal ricorso all’immaginazione, una capacità tuttavia non così vivida e forte in tutti i pazienti, pertanto non di pari efficacia della realtà virtuale. Quest’ultima trova, inoltre, un possibile impiego nel “public speaking”, in cui la persona viene “guidata” a sperimentare, in specifici contesti – la classe, incontri o colloqui di lavoro, eventi di rappresentanza – la propria capacità di parlare in pubblico, superando eventuali freni e paure. In ogni frangente, il confronto della persona con le proprie fragilità avviene tramite una graduale presa di coscienza: dapprima la consapevolezza, a livello cognitivo dei meccanismi che attivano la paura/i pensieri disturbanti, poi l’apprendimento a controllare/meglio canalizzarli con tecniche di gestione dell’ansia utili ad abbassare l’attivazione del sistema nervoso e, infine, il “trasporto” nella realtà virtuale per verificare la prontezza all’esposizione all’evento dopo il training attuato.

In termini di benefici, studi di letteratura attestano la stessa validità di esposizione con realtà virtuale rispetto a un contesto dal vivo, confermandone la capacità di traghettare la persona a vivere l’esperienza come se fosse reale.

Nelle psicosi

Alcuni dati efficaci sarebbero dimostrati anche nella prevenzione di forme di psicosi e di altri disturbi di personalità nei giovani. Le evidenze più importanti arrivano da gruppi di ricerca inglesi e americani, in cui la realtà virtuale applicata a protocolli di CBT in giovani con iniziali idee deliranti di tipo sociale, quali manie di persecuzione, consente di lavorare su strutture cognitive alterate prevenendo il consolidamento di idee deliranti.

È, infatti, dimostrato che episodi psicotici non adeguatamente trattati si associano a un aumentato rischio di evoluzione e sviluppo di schizofrenia. Mentre nel caso di schizofrenia conclamata sono in corso studi per valutare un possibile impiego della realtà virtuale con finalità di mantenimento, ovvero contro il peggioramento del quadro clinico. La realtà virtuale resta una opportunità di affiancamento, a seconda dei casi, a terapie farmacologiche e/o anche di supporto psichiatrico, da proporre a pazienti selezionati.

Rappresenta ad esempio un criterio di esclusione all’impiego di realtà virtuale il livello cognitivo; in un paziente con un funzionamento cognitivo delirante e un basso Quoziente Intellettivo meglio optare per altri strumenti/percorsi, così come lo stadio della malattia. In forme di psicosi conclamata, occorre ad esempio lavorare prima sulla riduzione/remissione dei sintomi e solo successivamente, una volta che la persona ha raggiunto un livello di stabilità, integrare eventualmente nel percorso di trattamento la realtà virtuale.

Ulteriori impieghi delle realtà virtuale

Potrebbe essere introdotta in percorsi/esercizi di rilassamento: la persona è immersa in un ambiente che risponde al proprio stato fisiologico rilevato tramite un braccialetto che registra l’heart rate e/o una banda che monitora la respirazione e un neurofeedback che rileva l’attività elettrica del cervello, cui viene affidato un compito, ad esempio far fiorire un campo. L’azione di fioritura avrà luogo solo nel momento in cui la persona avrà raggiunto un giusto livello di respirazione (rilevato da un software adeguatamente programmato) e si bloccherà in un contesto di iperventilazione: il biofeedback visivo immediato aiuta così la persona ad apprendere, a livello propriocettivo, lo stato ideale per mantenere una condizione ottimale di rilassamento.

Inoltre, la realtà virtuale potrebbe trovare utilità in pazienti con dolore cronico, in una sorta di apprendimento di tecniche di rilassamento per la gestione di stati fisici e mentali, o in ambito pediatrico, dove l’uso di videogames, può aiutare i bambini a gestire la paura, tramite anche la respirazione lenta. Infine, alcune esperienze sono state condotte in forme di anoressia, bulimia e binge-eating. In quest’ultimo caso, ad esempio, la persona è condotta in un ambiente in cui deve confrontarsi con specifici trigger alimentari, o in caso di anoressia nervosa  con la propria immagine corporea “dentro” uno specchio. Per ogni contesto, la restituzione di un feedback consente di impostare un lavoro mirato al disagio manifestato dalla persona.