Secondo Luca Pasina, capo laboratorio di Farmacologia clinica e appropriatezza prescrittiva, non ci sono alternative ai vaccini, e anche monoclonali e antivirali hanno utilità limitata. Per il professor Remuzzi l’efficacia delle cure domiciliari precoci va dimostrata da studi randomizzati

Terapie domiciliari precoci, monoclonali, antivirali: secondo Luca Pasina, capo laboratorio di Farmacologia clinica e appropriatezza prescrittiva dell’Istituto Mario Negri, non ci sono reali alternative agli attuali vaccini. Questi farmaci, ritiene, hanno cambiato la prospettiva di cura e l’evoluzione della malattia da Covid-19: sono stati studiati nella maniera corretta, secondo le regole della ricerca scientifica, e hanno dimostrato indiscutibili vantaggi, con uno scarso rischio di causare effetti indesiderati. Dati incoraggianti sono, però, emersi anche dalle terapie precoci. Per esempio quelli citati dallo studio retrospettivo (1) pubblicato da Giuseppe Remuzzi, direttore dello stesso Istituto, con Fredy Suter, primario emerito dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. La ricerca, apparsa su EclinicalMedicine (rivista che fa capo a The Lancet) dimostrava il netto calo delle ospedalizzazioni, intorno al 90%, utilizzando un protocollo di cura che partiva dal ricorso ad antinfiammatori non steroidei (Fans) inibitori della COX-2, come nimesulide e celecoxib. Protocollo, che aveva rimarcato il professore, è a disposizione dei medici che lo vogliono adottare. Vanno anche considerati altri studi, in questa direzione, che hanno dato risultati molto positivi: uno pubblicato sul Lancet da ricercatori di Oxford con un preparato inalatorio anti-asma (2) e un secondo (3) pubblicato da ricercatori indiani che utilizza indometacina (altro antinfiammatorio non steroideo). Lo stesso principio è alla base di un protocollo di cura adottato dal professor Serafino Fazio, spiegato in un recente studio retrospettivo apparso su Medical Science Monitor (4).

La dimostrazione definitiva dell’efficacia di queste cure, secondo il professor Remuzzi, arriverà da uno studio caso-controllo: più di 400 pazienti per gruppo, che confronta pazienti in terapia con antinfiammatori non steroidei ai primi sintomi con la terapia che i medici intendono adottare secondo le direttive attuali. Secondo il dottor Pasina gli anticorpi monoclonali e i farmaci antivirali sono invece opzioni di trattamento da utilizzare solo in circostanze particolari. Questi farmaci, infatti, non sostituiscono la vaccinazione, che rimane l’unico farmaco di prevenzione disponibile e lo strumento più efficace in termini di riduzione delle ospedalizzazioni e dei decessi.

Luca Pasina, capo laboratorio di Farmacologia clinica e appropriatezza prescrittiva dell’Istituto Mario Negri

Dottor Pasina, terapia precoce domiciliare, monoclonali, antivirali contro il Covid: quali sono le alternative alla vaccinazione più efficaci e promettenti?

Non esistono alternative valide alla vaccinazione: questa consente alle persone sane di non ammalarsi, mentre tutte le altre cure cercano di fare in modo che le persone infettate non sviluppino una forma grave di malattia. L’efficacia è solo parziale e i risultati sono incerti, mentre il vantaggio di prevenire la malattia è indiscutibile. Gli anticorpi monoclonali e gli antivirali, per esempio, hanno una certa efficacia nelle prime fasi della malattia nei soggetti con sintomi di grado lieve-moderato, ma con alto rischio di sviluppare una forma grave di Covid. Alcuni studi sulle terapie domiciliari sono in corso e quando termineranno sapremo quanto gli schemi proposti sono realmente efficaci.

Oggi nel conteggio dei “casi” si scambia la positività con l’infettività. Il professor Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione microbiologi Italiani, ha riferito che sopra i 35 cicli di amplificazione della Pcr solo lo 0,5% dei casi sono trovati realmente infettivi. Lo stesso professor Remuzzi ha auspicato a un conteggio che tenga conto delle nuove conoscenze. Perché non ci si uniforma a quanto raccomanda l’Ecdc ovvero non andare oltre i 25 cicli di amplificazione?

Vista la complessità della situazione non c’è da meravigliarsi che se ne discuta e che ci voglia del tempo per trovare risposte a questo quesito. È importante che la ricerca, sulla base dei dati che si rendono di volta in volta disponibili, riesca a identificare uno standard di riferimento. Questa risposta potrà arrivare solo facendo ricerche specifiche.

Sono usciti diversi studi, uno degli ultimi è apparso su Nature, che sostengono che chi è guarito dal Covid possa avere una protezione dalla reinfezione più lunga rispetto alla vaccinazione, di qualche anno; e di «several years» (qualcuno sostiene anche permanente) per le sintomatologie gravi della malattia. In Italia invece non se ne tiene conto nella politica vaccinale.

Non direi: la strategia vaccinale considera la pregressa infezione equivalente alla somministrazione di una dose di vaccino, e così nelle persone guarite è possibile effettuare la prima dose a distanza di 6 mesi dalla guarigione. Questa raccomandazione è in linea con quanto proposto anche dall’Oms e dalla comunità scientifica. Gli studi disponibili suggeriscono infatti che la vaccinazione, dopo aver contratto l’infezione, è in grado di produrre una maggior protezione sia rispetto al normale ciclo vaccinale, sia rispetto all’immunità conferita dalla pregressa infezione. Oltre che di ridurre in maniera molto più efficace sia il rischio di re-infezione sia quello di sviluppare una forma grave di malattia. Pertanto la scelta di vaccinare anche le persone guarite è corretta.

Uno studio dell’Iss ha dimostrato che i fattori di rischio sono fondamentali per un esito di decesso (solo circa il 3% dei 130 mila morti aveva zero patologie gravi): che cosa sappiamo di chi finisce invece in terapia intensiva? Quanto può influire lo stile di vita (alimentazione, movimento, psiche…) come fattore protettivo dagli esiti più gravi della patologia?

Attualmente le persone che finiscono in terapia intensiva sono principalmente non vaccinate. Quantificare i benefici degli stili di vita non è semplice, così come stabilire una relazione di causalità con gli episodi meno gravi della malattia. Ad esempio, l’attività fisica ha la capacità di stimolare le difese immunitarie; ma potrebbe essere controproducente nelle fasi di incubazione del virus, perché potrebbe facilitare la penetrazione diretta del virus nelle vie aeree inferiori e negli alveoli. Anche in questo caso è importante che siano condotte ricerche specifiche prima di trarre conclusioni.

Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri

Nel suo nuovo libro, Le impronte del Signor Neanderthal, il professor Remuzzi cita tra i fattori di rischio una mutazione genetica avvenuta sul cromosoma 3 che ci portiamo dall’uomo di Neanderthal e che predisporrebbe alle forme più gravi del Covid: come mettere in pratica questa conoscenza, in futuro serviranno screening genetici come terapia preventiva come oggi si fa sul cancro?

È possibile: conoscere i fattori di rischio è essenziale e alcune osservazioni hanno una ricaduta pratica non immediata. Quando un problema è complesso, tuttavia, più informazioni si hanno a disposizione e migliori saranno le decisioni che si potranno prendere nel tempo.

Che ruolo hanno i co-fattori ambientali: pm 2,5, radiazioni solari, le componenti di umidità nell’eziologia del Covid? L’Università di Harvard era arrivata, per esempio, a stabilire l’incremento di rischio di decesso per Covid del 15% per ogni aumento di 1 µg/m3 di Pm 2,5.

Alcune ipotesi suggeriscono correlazioni tra le aree a maggior inquinamento atmosferico e la diffusione del virus. Queste osservazioni hanno stimolato molti gruppi a esaminare ulteriormente il problema, ma l’associazione è ancora incerta ed è opportuna cautela prima di trarre conclusioni sulla possibile relazione di causa-effetto.

I rischi sono inferiori ai benefici si sostiene nella vaccinazione di massa: fare esami preventivi, per esempio i parametri sul rischio trombotico, presenza di Igg, non aiuterebbe a ridurre gli eventuali e sempre possibili reazioni avverse?

Questi vaccini sono estremamente sicuri: la quasi totalità delle reazioni avverse segnalate si riferiscono a reazioni “non gravi”, come cefalea, astenia, febbre e reazioni locali nel sito di iniezione. Miocarditi e pericarditi sono eventi rarissimi e non gravi. L’esecuzione di esami di laboratorio per individuare soggetti predisposti a sviluppare reazioni avverse da vaccino è inutile. Non esistono test predittivi o esami diagnostici utili a fornire previsioni di alcun tipo, né prima, né dopo la vaccinazione. Allo stesso modo non è utile il dosaggio degli anticorpi, perché non si conosce il livello in grado di garantire una protezione certa dall’infezione. Pertanto la scelta di vaccinarsi e di effettuare i richiami deve essere indipendente dall’esito dell’esame sierologico.

Dovremmo vaccinare il mondo interno per impedire la proliferazione di nuove varianti? Oppure, come sostiene per esempio il professor Pietro Luigi Garavelli, primario della Divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara, la ricerca dovrebbe concentrarsi nell’identificare un determinante comune a tutti i ceppi che non muta e costruire un vaccino su quello?

La scelta di vaccinare tutti nel più breve tempo possibile è sicuramente quella giusta. Solo portando la copertura vaccinale a livello globale è possibile limitare lo sviluppo di ceppi resistenti al vaccino. Fino a oggi le varianti che hanno richiesto maggior attenzione si sono sviluppate in Paesi a bassa copertura vaccinale; ne è un esempio la variante Omicron: in Sudafrica, a oggi, solo il 25% della popolazione ha potuto completare il ciclo vaccinale.

La tecnologia dell’Rna messaggero rivoluzionerà la farmacologia?

È possibile e ce lo auguriamo. Le conoscenze prodotte con lo sviluppo di questi vaccini e i risultati dimostrati contro il Covid potrebbero consentire alla ricerca scientifica di produrre vaccini anche per altre patologie, come il cancro, che è l’obiettivo contro cui circa 20 anni fa è iniziato lo sviluppo dei vaccini a mRna.

Fonti:

  1. Fredy Suter et al. “A simple, home-therapy algorithm to prevent hospitalisation for COVID-19 patients: A retrospective observational matched-cohort study”. EClinicalMedicine, July 2021
  2. Sanjay Ramakrishnan et al. “Inhaled budesonide in the treatment of early COVID-19 (STOIC): a phase 2, open-label, randomised controlled trial”. The Lancet Respiratory Medicine, Volume 9, Issue 7, 2021, Pages 763-772
  3. Rajan Ravichandran et al. “Indomethacin Use for Mild & Moderate hospitalised Covid-19 patients: An open label randomized clinical trial”. 
  4. Serafino Fazio, Paolo Bellavite, Elisabetta Zanolin, Peter A. McCullough, Sergio Pandolfi, Flora Affuso. “Retrospective Study of Outcomes and Hospitalization Rates of Patients in Italy with a Confirmed Diagnosis of Early COVID-19 and Treated at Home Within 3 Days or After 3 Days of Symptom Onset with Prescribed and Non-Prescribed Treatments Between November 2020 and August 2021”. Med Sci Monit In Press; DOI: 10.12659/MSM.935379