David Eisenberg è una figura cruciale nel mondo delle CAM per un insieme di fattori storici e personali. Ha attraversato la storia della medicina integrativa e complementare negli Stati Uniti e ha contribuito a delinearne alcuni punti fondamentali. Medicina Naturale lo ha intervistato a Miami in occasione del Congresso internazionale Integrative Health & Care 2014.
Dottor Eisenberg, qual è la storia personale che l’ha portata a impegnarsi nelle CAM?
Purtroppo a soli 10 anni persi mio padre, fulminato da un infarto a 39 anni e, subito dopo, tutti i miei nonni. Da adolescente mi incuriosirono molto i temi di medicina e salute e ciò che faceva vivere e morire le persone. Nel ’71 lessi un articolo sul New York Times sull’agopuntura e del suo impiego in anestesia; mi interrogai sulla possibilità di studiare l’agopuntura, ma nessuno seppe dirmi nulla. Recuperai la versione inglese del Classico di medicina interna dell’Imperatore giallo nel quale vi è scritto che i medici saggi non trattano le persone già ammalate, ma istruiscono quelle sane su cosa fare per non ammalarsi.
Furono intuizioni fondamentali per il suo futuro lavoro di medico?
Due elementi catturarono la mia attenzione: il primo, che la prevenzione è sempre superiore all’intervento terapeutico e, il secondo, che il modo in cui si vive, si mangia, ci si muove e si pensa ha un impatto notevole sulla salute e sulla nostra capacità di guarigione. Nel ’76 mi iscrissi alla facoltà di medicina di Harvard, mantenendo vivo il desiderio di visitare la Cina.
Ci riuscì?
Inizialmente no, ma feci un viaggio a Taiwan e li approfondii la conoscenza del cinese e studiai l’agopuntura. Nel gennaio ’79, il Presidente Carter ripristinò le relazioni diplomatiche con la Cina e, l’Accademia nazionale di scienze statunitense avviò un programma di cooperazione universitaria fra i due paesi. Fui il primo studente americano di medicina che partecipò a quell’esperienza.
Ha pubblicato molti lavori, ma uno in particolare è stato importante…
Nel 1993 pubblicai un articolo sul New England Journal of Medicine che descriveva quanti americani utilizzassero le medicine allora dette “alternative”: circa 60 milioni di persone, il 34% della popolazione, che spendevano diversi miliardi di dollari e che nel 72% dei casi non informavano il proprio medico. Per 15 anni, insieme ai miei colleghi, abbiamo lavorato per capire quando e perché i cittadini si rivolgevano a queste terapie svolgendo ricerche epidemiologiche. Lo step successivo è stato chiedersi se queste terapie fossero efficaci e ci siamo dunque dedicati alla ricerca clinica e al tema della sicurezza; fondai così il primo Dipartimento di ricerca in medicina complementare e integrata della facoltà di medicina di Harvard, gli ambulatori medici e la prima divisione ospedaliera, avviando il programma di medicina integrata al Brigham and Women’s Hospital.
Quale riflessione si sente di condividere con i colleghi italiani?
Che ci si può aiutare a vicenda, imparare l’uno dall’altro e condividere. Lavorare insieme aiuta a porsi le domande giuste, ad avvicinarsi all’obiettivo di accreditare e dare più forza a questa medicina.
Da qualche anno si sta impegnando anche in ambito nutrizionale…
Ho avviato l’esperienza di “Healthy kitchens”: la cucina come laboratorio per la creazione di salute. Negli USA un’intera generazione non cucina più e ciò ha sviluppato conseguenze deleterie per lo stato di salute dei cittadini. Abbiamo così formulato un programma di corsi di cucina per medici e operatori sanitari affinché possano insegnare queste ricette ai loro pazienti e organizziamo un convegno in cui 70 chef lavorano per tre giorni.