Nome in codice: rs10774671-G. È quello del gene che sarebbe in grado di proteggere dallo sviluppo di forme gravi di SARS-CoV-2. Lo hanno identificato un gruppo di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma in collaborazione con colleghi canadesi e statunitensi comparando i DNA di diverse etnie. Lo studio è illustrato in un lavoro pubblicato su Nature Genetics.

Covid, il fattore genetico alla base

Sembra spiegata la causa della diversa gravità, da lieve a moderata a severa, delle manifestazioni di SARS-CoV-2. L’intensità sarebbe influenzata da un gene, ancora meglio da un particolare segmento di DNA, che ridurrebbe del 20% il rischio di sviluppare un’infezione grave da Covid-19: frammento che è stato localizzato per la prima volta in precedenti studi condotti su popolazioni di origine europea. Nello specifico, questo segmento di DNA codifica i geni del sistema immunitario ed è ereditato dall’uomo di Neanderthal da circa metà delle persone non di origine africana.

Per quanto rilevante, la scoperta ha un “limite”: questa porzione di DNA presenta, infatti, numerose varianti genetiche, rendendo complessa l’identificazione del gene specifico protettivo e proattivo contro il rischio di sviluppare forme gravi di SARS-CoV-2. Per arrivare al dunque della loro scoperta, i ricercatori hanno rivolto l’attenzione alla gran parte di popolazioni africane: non avendo “subito” l’eredità di Neanderthal, in quanto avvenuta dopo l’antica migrazione fuori dall’Africa, e quindi potenzialmente prive di questo specifico segmento, potevano essere la fonte per arrivare alla spiegazione del fenomeno.

Covid e genetica, lo studio

Di ampia portata, lo studio ha coinvolto 2.787 pazienti Covid-19 di discendenza africana ricoverati in ospedale e 130.997 persone sane incluse nel gruppo di controllo. È stato pertanto possibile per i ricercatori confrontare i risultati rilevati fra le popolazioni europee dei precedenti studi con quelli emersi dall’etnia africana, arrivando a scoprire che una parte sostanziale di quest’ultima, all’incirca l’80%, vantava la medesima protezione delle popolazioni caucasiche. La ragione? Anch’essi possedevano nel loro DNA la variante del gene protettiva rs10774671-G.

Da qui l’idea che fosse il gene e quel particolare segmento di DNA comune a tutte le etnie considerate il fattore determinante. Su questa base sono state avviate ulteriori indagini per identificare il meccanismo di azione. Il gene protettivo contiene le istruzioni per produrre una proteina, OAS1, più lunga della sua versione normale, e già nota per la capacità nello sconfiggere il virus SARS-CoV-2.

Le implicazioni dello studio sono potenzialmente preziose, con ricadute in ambito clinico: «Conoscere i fattori di rischio (o protettivi) genetici nel dettaglio – dichiara Brent Richards, ricercatore senior presso il Lady Davis Institute del Jewish General Hospital, professore alla McGill University in Canada e fra gli autori dello studio – è un aspetto cruciale per procedure allo sviluppo di nuovi farmaci anti-Covid-19». La pandemia ha migliorato la collaborazione tra ricercatori in diverse parti del mondo, permettendo di studiare elementi di rischio genetico in una più ampia diversità di individui, superando l’attuale limite di una ricerca condotta per la maggior parte su popolazioni in prevalenza europee.

«Il nostro studio – conclude Hugo Zeberg, assistente professore presso il Dipartimento di Neuroscienze del Karolinska Institutet – mostra l’importanza di includere in ricerca individui di origini diverse. Se ci fossimo limitati a un solo gruppo, non saremmo riusciti ad arrivare a questo punto, identificando la variante genetica».

Fonte:

  • Huffman JE, Butler-Laporte G, Khan A et al. “Multi-ancestry fine mapping implicates OAS1 splicing in risk of severe COVID-19”. Nature genetics, Open Access, 2022