La digitalizzazione della salute e della malattia: pro e contro

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Si parla di videogiochi utilizzabili per trattare disturbi neurologici come deficit di attenzione e iperreattività in persone affette da deficit cognitivi. La domanda d’obbligo è: sono articolazioni tecnologiche moderne di un sapere clinico antico o rischiano di diventare protesi sostitutive di una pratica clinica e di una semeiotica medica ormai in decadenza? 

Oltre l’88% degli Italiani (dati Censis) cerca su Internet informazioni sulla propria malattia o sul proprio stato di salute; il 93% sono donne e quasi 1 su 2 si affida ai primi risultati che incontra nei diversi motori di ricerca senza approfondire la veridicità delle fonti. I medici si dimostrano sempre molto scettici e prevenuti quando un paziente arriva in ambulatorio con le ipotesi di patologia, ma anche di terapia, raccolte su internet e fanno fatica a trattenersi dall’usare qualche commento ironico ma la realtà è ormai molto oltre questi pregiudizi.

Connesso al rapporto sempre più stretto tra tecnologia e salute è poi un altro tema: l’uso sempre più dilagante di vari device elettronici che dovrebbero aiutare medico e paziente nella gestione della salute stessa. Si tratta per lo più di app, trattamenti digitali, ma anche, e su questi vogliamo porre l’attenzione, di videogiochi.

Si è molto parlato, infatti, di un videogioco per bambini diffuso negli studi odontoiatrici in grado di distrarre i bambini che devono subire un trattamento dentistico e di ridurne la paura, consentendo interventi più sicuri ed efficaci. Questo è solo un esempio di un fenomeno più vasto, anzi talmente vasto da risultare difficile da quantificare: la digitalizzazione della salute e della malattia. Disturbi neurologici come il deficit di attenzione e iperreattività sembrano infatti potersi giovare terapeuticamente di un videogioco in grado di attivare e riprogrammare circuiti neurologici di persone affette da deficit cognitivi. A questa categoria appartiene un altro videogioco che, insegnando ai bambini colpiti da ischemia o emorragia cerebrale a diventare prestigiatori, dovrebbe favorire una maggiore e più rapida compensazione dei danni cerebrali subiti.

La domanda d’obbligo è: sono davvero utili o si tratta solo di un’invenzione del marketing che li propone spesso come indispensabili? Sono articolazioni tecnologiche moderne di un sapere clinico antico o rischiano di diventare protesi sostitutive di una pratica clinica e di una semeiotica medica ormai in decadenza? La risposta più immediata è che tutto ciò che contribuisce a catturare l’attenzione e la collaborazione del paziente, specie se si tratta di giovani ipertecnologici e iperconnessi per definizione, spesso così distanti dal sentire e dalla forma mentis dei sanitari, è utile e con le modalità più appropriate deve essere utilizzato.

In ogni caso, qualsiasi risposta vogliamo dare, è indubitabile che si è aperta una nuova frontiera della terapia, potenzialmente in grado di curare in modo non farmacologico una lunga serie di disturbi, sfruttando la capacità di un gioco non solo di catturare l’attenzione dei bambini ma di coinvolgerli come protagonisti virtuali del gioco stesso. Sappiamo ormai da tempo che il gioco serve anche per costruire relazioni sociali, e secondo Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, lo fanno a loro modo anche alcune piante particolarmente ‘sociali’ come i girasoli.

Dunque, un’equazione vincente su tutti i fronti? È ancora presto per dirlo perché esistono problemi di brevetti e di proprietà di questi in un contesto, specie in Italia, di sanità pubblica e soprattutto della valutazione di possibili rischi come per tutte le terapie (dipendenze?). Per il momento tutto sembra confermare che l’antico adagio “unire l’utile al dilettevole” godrà nella moderna tecnologia di una sempre maggiore popolarità. Il tempo dirà se queste promesse mirabolanti saranno mantenute.