La sostenibilità dei Sistemi sanitari nazionali pubblici, o “universalistici”, è ormai oggetto di discussioni quotidiane, sia che si parli della crisi economica della Grecia che della realtà italiana, variegata quanto il numero delle regioni e province autonome che la compongono.
Al centro della discussione è se sia ancora possibile, nel Terzo Millennio e nella perdurante situazione di crisi economica globale che, nonostante i segni di una ancora troppo debole ripresa, non mostra ancora una via di uscita certa, mantenere o addirittura potenziare, di pari passo all’evoluzione della ricerca scientifica, la sanità pubblica.
Di quanta importanza abbia questo tema il cittadino spesso nella sua difficile quotidianità non si rende conto. Se ne accorge quando viene colpito da una malattia e magari rimane vittima dei tanti, troppi disservizi, errori, mancanze a cui assiste spesso impotente quando è costretto a ricorrere ai servizi sanitari. In paesi come il nostro il diritto di accesso a servizi sanitari gratuiti e di qualità è dato per scontato ed è difficile.
Difficilmente il “normale” cittadino infatti ha occasione di incontrarsi con le diverse realtà sanitarie internazionali e quindi non ci si rende conto del fatto che avere gratuitamente (o quasi) le medicine, i ricoveri, le visite specialistiche, gli interventi chirurgici è ormai da considerarsi come un privilegio, e di comparare la nostra situazione a quella di altri paesi, non solo del Sud del mondo dove sanità pubblica non esiste, o esiste solo sulla carta come per esempio nei paesi dell’Est europeo, ma anche agli Stati Uniti dove dopo una battaglia di decenni si è ottenuto solo da poco una forma di assicurazione che consente l’accesso ai più poveri solo ad alcune prestazioni sanitarie, e dove i cittadini di classe media per avere prestazioni sanitarie debbono avvalersi di assicurazioni private pagate decine di migliaia di dollari all’anno.
D’altra parte la transizione epidemiologica dalla prevalenza nella popolazione di patologie infettive alla prevalenza di malattie croniche, così come l’invecchiamento della popolazione e il conseguente incremento del consumo di farmaci dovuto alle tante co-morbidità dell’anziano, la crescita eccessiva dei costi delle prestazioni determinata dallo sviluppo tecnologico e dall’adeguamento dei salari, insieme al problema dell’inefficienza di un sistema dove una siringa costa una cifra in Lombardia e magari dieci volte di più in Lazio, fanno sì che i costi sanitari siano destinati a lievitare costantemente.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) prevede infatti che nei paesi aderenti, nonostante il calo registrato negli ultimi anni, la spesa farmaceutica potrebbe crescere entro il 2018 del 30% rispetto al 2013, considerando che l’uso di antipertensivi, antidiabetici e antidepressivi è praticamente raddoppiato, mentre il consumo di ipocolesterolemizzanti è addirittura triplicato, ma anche a causa del costo esorbitante di diversi prodotti farmaceutici come avviene con molti farmaci antitumorali di ultima generazione. Esemplificativo il caso dell’immissione sul mercato mondiale di nuove terapie contro il virus dell’epatite C come il sofosbuvir in grado, si ritiene, di eradicare l’infezione da HCV, principale responsabile di cirrosi (72%) e tumore del fegato (76%), ma dal costo esorbitante di 30-40.000 euro per ogni trattamento, da destinare eventualmente a circa un milione di ammalati in Italia (mentre sarebbero circa 140 milioni nel mondo), una cifra pari a quasi la metà dell’intero budget di spesa sanitaria annuale in Italia. Un costo del tutto insostenibile, quindi.
Tutto questo avviene in un periodo storico dove la crisi economica e sociale ha coinvolto in misura rilevante i sistemi sanitari di diversi paesi, che quindi hanno cominciato a ripensare sistemi di gestione della salute dei cittadini e in qualche caso hanno già avviato sostanziali riforme del sistema che porteranno inevitabilmente a nuovi tagli della spesa sanitaria e alla riduzione di quantità e qualità dei servizi.
Di fronte a tutto questo, la domanda da porsi non è tanto se le medicine complementari debbano essere o meno integrate nel Sistema sanitario nazionale (come avviene da alcuni anni anche in paesi con una lunga tradizione di integrazione come l’Inghilterra) e in che misura possano contribuire a ridurre i costi sanitari. Semplicemente: che cosa si aspetta a farlo? A passare decisamente all’azione dando al paziente la possibilità in tantissimi casi di risolvere i propri problemi di salute in modo più dolce e naturale, senza (o quasi) effetti avversi e a costi decisamente più sostenibili, come dimostra anche uno studio francese condotto su più di 6.000 pazienti e da poco pubblicato su Health Economics Review in cui vengono comparati i costi sanitari di medici omeopatici, medici convenzionali e medici che utilizzano entrambe le metodiche, da cui risulta che le spese sanitarie sostenute dai pazienti omeopatici sono minori almeno del 20% rispetto a quelle dei pazienti in cura con medicina convenzionale.
Non si tratta certo dell’uovo di Colombo, né si è tanto ingenui da pensare che questa sia “la” soluzione di problemi così articolati e complessi, ma certo è una delle scelte che potrebbero contribuire a rendere più sostenibile l’evoluzione di una sanità universalistica e aiutare a mantenerla nel futuro.
Elio Rossi