Dal recente convegno Preserving the Brain, che ha coinvolto tredici tra i più prestigiosi istituti e università di neuroscienze a livello internazionale, emergono positive aspettative su terapie e cure grazie ai progressi nella conoscenza della patogenesi comune. Cruciale il ruolo della microglia, come racconta l’ideatore del forum Giancarlo Comi, coordinatore dei servizi di neurologia del Centro Diagnostico Italiano

Qual è lo stato di conoscenza attuale delle malattie neurodegenerative? La fotografia è stata scattata dal forum Preserving the Brain, quarta fase di Human Brains. Il progetto di Fondazione Prada dedicato alle neuroscienze è stato realizzato in collaborazione con tredici tra i più prestigiosi Istituti e Università di neuroscienze a livello internazionale, dalla Harvard Medical School al Max Planck Institute of Neurobiology, dal Karolinska Institutet di Stoccolma all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Il momento centrale è stato il convegno scientifico, che ha visto la partecipazione di ricercatori, associazioni di malati, esponenti delle istituzioni sanitarie e dell’industria farmaceutica e biotecnologica. Facciamo il punto su quanto emerso nel corso del convegno con l’ideatore Giancarlo Comi, responsabile scientifico del progetto e coordinatore dei servizi di neurologia del Centro Diagnostico Italiano.

Giancarlo Comi, responsabile scientifico del progetto Preserving the Brain e coordinatore dei servizi di neurologia del Centro Diagnostico Italiano
Cominciamo dalla fine: non solo del convegno, ma anche dell’interessante mostra correlata che si è appena conclusa, ospitata presso la Fondazione Prada, a Milano.

Temevamo che una mostra scientifica in un contesto prettamente artistico non avesse seguito, invece ha avuto tantissimi accessi. Sono venute molte scuole, con visite guidate, ha stimolato la fantasia. Il Covid, nel bene o nel male, ha acceso i riflettori sulla scienza. Stiamo programmando di esportarla a Shanghai e ci è stata richiesta anche da San Francisco.

Qual era l’obiettivo del convegno?

Mettere a confronto discipline e competenze contigue, ma diverse. L’elemento comune erano i processi di degenerazione del sistema nervoso. L’abbiamo chiamato Preserving the Brain perché l’obiettivo è quello, in positivo, di capire come proteggere il cervello. Il primo aspetto centrale è stato lo scambio tra ricercatori che si occupano di diverse patologie: sclerosi multipla, demenza, Alzheimer, Parkinson. Il secondo, il mettere l’uno vicino all’altro tutti i corpi sociali attivi: l’accademia da un lato, ma anche le associazioni dei malati, i malati stessi, le persone che presiedono alle attività di ricerca e che devono prendere decisioni strategiche. Tutto questo declinato a livello mondiale.

È stato un unicum del suo genere con questa impostazione. Ciò è stato ben evidenziato dall’ultima attività del convegno, una tavola rotonda che aveva come scopo quello di mettere a confronto i diversi punti di vista nelle due giornate di lavoro. Abbiamo fatto parlare tutte le componenti, inclusa l’industria farmaceutica, la biotecnologia e chi finanzia le prime fasi di sviluppo dei farmaci.

Circa il 10% della popolazione soffre di malattie neurodegenerative, una percentuale in costante aumento. Cosa è emerso dal convegno al riguardo?

Il convegno ha consentito di fare il punto sulla situazione. Gli sviluppi recentissimi della medicina molecolare, le tecniche di sequenziamento, gli studi più avanzati sul Dna e sugli aspetti genetici che sottendono queste malattie dicono che hanno sempre una componente genetica, talora fortissima. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, si trasferisce solo una piccola suscettibilità: sommata a tanti altri fattori, tra cui quelli ambientali (il 30% delle malattie degenerative è imputabile a fattori ambientali) essa determina la comparsa della malattia.

Accumulo di determinate proteine nelle cellule nervose (nell’Alzheimer la beta-amiloide, nel Parkinson l’alfa-sinucleina, nel morbo di Huntington l’huntingtina, nella sla TDP-43). È questo il fil rouge delle malattie neurodegenerative?

Ci sono dei percorsi comuni attraverso cui queste malattie si realizzano. È emerso a tal proposito un candidato che potrebbe essere indicato come un colpevole comune: le cellule della microglia. È la parte del sistema immunitario innato che risiede stabilmente nel cervello, un guardiano che ogni tanto riceve i rinforzi dalla periferia, i macrofagi. Questa presidia il territorio, cerca se c’è qualche detrito da portare via, come neuroni danneggiati o agenti infettivi. Sono guardiani estremamente zelanti che puliscono anche troppo e diventano un fattore importante di tutte queste malattie. Questa iper reattività, infatti, si può trasformare in una condizione negativa. L’idea è quella di trovare terapie che insegnino alla microglia a non eccedere nell’atteggiamento protettivo da “poliziotto cattivo”.

Tutte le patologie neurodegenerative hanno in comune una compromissione del sistema immunitario: è quello che fa da tramite tra i vari fattori e influenza la modalità della malattia. La beta-amiloide c’entra, ma non è l’unico elemento in gioco: l’eccesso di beta-amiloide non è sufficiente e va legato a queste componenti infiammatorie. Da sempre sappiamo, dalle autopsie, che ci sono persone con eccesso di produzione di beta-amiloide, in cui il cervello è rimasto perfettamente funzionante. Dobbiamo capire qual è l’elemento che fa sì che la beta-amiloide o l’alfa-sinucleina esercitino un fattore rilevante sull’entità del danno.

Lei ha studiato molto la sclerosi multipla. Cosa sappiamo della sua patogenesi? Quali sono gli orizzonti futuri?

Al convegno se ne è parlato molto. La fase preclinica della malattia può essere individuata facendo una risonanza magnetica che mostra la presenza di aree di alterato segnale nel cervello. Si tratta della cosiddetta sindrome clinicamente isolata, il cui riscontro può consentire l’effettuazione di esami che confermano l’esistenza della fase preclinica di malattia. Inoltre, recentemente, è stato dimostrato che i pazienti con una diagnosi di sclerosi multipla già nei 5-8 anni antecedenti avevano fatto un maggior uso di risorse sanitarie indicative di una fase prodromica della malattia. Anche grazie a questo vantaggio, di individuazione in una fase molto precoce di malattia, la terapia ha avuto un enorme sviluppo. Ciò che non è ancora stato chiarito è il motivo per cui i pazienti sviluppino a un certo punto la fase progressiva di malattia. Sicuramente c’è di mezzo la microglia.

Qual è il contributo del Centro Diagnostico Italiano su queste patologie?

Il CDI ha organizzato un’attività avanzata di laboratorio, di diagnosi e monitoraggio: dispone di tutti gli strumenti per poter diagnosticare precocemente queste malattie. Oggi hanno grande rilevanza la risonanza magnetica, la Pet, il laboratorio e la neurofisiologia. Per tutte queste malattie l’elemento cruciale emerso è l’intervento terapeutico estremamente precoce, addirittura nella fase prodromica, in cui non abbiamo la diagnosi, ma degli stigmi che ci denunciano la possibile presenza. Ci sono vari modi per capirlo, modificazioni negli esami, marcatori biologici e funzionali che ci avvertono che la situazione sta virando. Occorre cogliere questi elementi per mettere in atto una strategia precoce. Di qui la necessità che i centri clinici siano in grado di offrire questo spettro di indagini. Abbiamo bisogno di più attenzione, organizzazione, qualità e questo al CDI è una caratteristica intrinseca.

A breve, inoltre, sapremo se un nuovo trattamento per l’Alzheimer funziona o meno. Si tratta di un farmaco, un anticorpo monoclonale. Aspettiamo la comunicazione dei risultati: c’è enorme attesa, potrebbe essere un turning point.

Quale strategia dovrebbe adottare la medicina territoriale per intercettare precocemente i malati?

Si parla ormai di epidemia di Alzheimer e di Parkinson, con l’invecchiamento della popolazione: è stato stimato che il numero dei malati raddoppierà entro il 2040. I costi per mancata diagnosi e trattamento sono enormi. È in atto uno studio globale gigantesco che si propone di quantificare il carico economico di tutte queste malattie in tutti i Paesi. In Italia abbiamo stime fatte dalle singole organizzazioni (per esempio Aism), ma siamo lontani a livello mondiale. Qui si tratta di usare uno strumento comune. Occorre un modello organizzativo. In Italia abbiamo creato i centri Alzheimer, ma serve che ci sia una forte attivazione di queste strutture, con capacità di diagnosi e monitoraggio precoce.

Altra raccomandazione è che bisogna dotarsi di più infrastrutture d’eccellenza per le attività di ricerca per favorire l’accesso di giovani ricercatori: abbiamo bisogno di cervelli giovani. Occorre usare tutte le armi a disposizione in modo precoce e intenso. Oggi abbiamo uno spettro di terapie ampio che ci permette di svolgere questo compito. Poi bisogna pensare con estrema attenzione a come potenziare i meccanismi di recupero.

Che strumenti abbiamo a disposizione?

C’è stata grande distrazione sull’intervento di quei fattori in grado di render migliore la qualità della vita: la riabilitazione, il potenziamento della plasticità cerebrale attraverso la stimolazione magnetica ed elettrica sono fattori di enorme importanza in caso di Parkinson, Alzheimer, sclerosi multipla.

Nella nostra struttura abbiamo appena aperto un centro di neuromodulazione con le più avanzate apparecchiature di stimolazione cerebrale. La terapia viene fornita in connessione con la riabilitazione cognitivo e fisica. Le persone vengono sottoposte a un processo integrato di stimoli cognitivi, fisioterapia. Lo stesso giorno, in sequenza, i messaggi inviati con la stimolazione fisica sono rinforzati con quella magnetica di profondità, H-coil, il dispositivo più avanzato al mondo per la stimolazione magnetica, oppure attraverso la stimolazione a corrente continua. In tutte queste patologie le persone sfioriscono perché non c’è intervento adeguato. In attesa della grande soluzione risolutiva si dimentica di fare quel poco che c’è già.

Quanto incide l’epigenetica? Come si può prevenire e mantenere un cervello sano?

Bisogna potenziare molto la prevenzione. Il processo educativo è fondamentale. È stato raccomandato che a scuola si dovrebbe insegnare agli studenti come trattare bene il cervello, cosa gli fa male, quali sono i fattori negativi: è l’organo più prezioso. I fattori epigenetici sono la tematica su cui discuteremo in Fondazione Prada. Si parla di promuovere una campagna mondiale per l’attenzione ai fattori di rischio: se ne parla ma bisogna farlo in modo scientifico.

Qualità del sonno, luce, rispetto dei ritmi circadiani, diabete, fumo, peso, alcol, ipertensione, depressione-stress, ambiente, cultura, movimento. Su quali di questi fattori abbiamo evidenze che influenzino in modo positivo o negativo lo sviluppo delle malattie neurodegenerative?

I fattori che hanno una base comprovata, e se ne è parlato al convegno, sono sicuramente l’esercizio fisico e quello mentale come corollario. Il primo ha un’identità molto forte di cui si conoscono tutti i meccanismi in gioco. Quindi la qualità dell’aria, con il coinvolgimento del particolato, soprattutto pm 2,5, e fumo di sigaretta. Poi l’apparato digerente e il ruolo dell’intestino. Non ci sono dubbi che esista un’interazione tra intestino e cervello: siamo all’inizio di una storia. Sono ancora non sufficientemente qualitative le indagini su quali tipi di dieta influenzino una prevalenza del microbiota pro infiammatorio rispetto a quelli antinfiammatorio, è un campo che richiede ulteriori studi, ma è ovvio che una popolazione che si caratterizza in un certo modo per ceppi batterici dipende anche dalla dieta. Altro fattore target è la qualità del sonno, su cui il professor Luigi Ferini Strambi ha relazionato. Ha mostrato, in particolare, come la quantità di ore di sonno abbia importanza sulla microglia. Si è visto come questa assuma un atteggiamento pro infiammatorio nel momento in cui altero quantitativamente e qualitativamente il sonno.

Si parla sempre più insistentemente di asse gut-brain, del coinvolgimento del microbiota-microbioma. In futuro potranno avere un ruolo in chiave preventiva anche i probiotici?

Sono stati presentati i dati di un grande studio realizzato dall’Università della California, San Francisco, che è andato a esaminare i ceppi del microbiota di varie popolazioni. Ha trovato correlazioni di un certo ceppo con certe caratteristiche genetiche e il sistema immunitario. La selezione di ceppi che inducono certe reazioni può essere disattivata o attivata dalle condizioni dell’ambiente idoneo o meno per loro: il microbiota è dipendente da cosa assumiamo.

Emblematico è un esperimento del gruppo del Max Planck Institute. Hanno preso dei gemelli monozigoti, uno con sclerosi multipla l’altro no. Hanno studiato i loro comportamenti e hanno scoperto che il microbioma era diverso. Hanno preso topi germ-free, hanno cercato di indurre il modello di sclerosi ma non si ammalavano; hanno inserito i microbi del gemello con la sclerosi e si sono subito ammalati. Esiste un’enorme connessione tra l’intestino e reazioni infiammatorie: su questo non ci sono dubbi. Le ipotesi sono varie, può essere una reazione che avviene localmente e poi attraverso il sistema linfatico-circolatorio arriva al cervello o si diffonde lungo il nervo vago. Ci mancano prove definitive, ci sono molti studi ma di dimensioni ridotte.

Che prospettive ci sono con lo sviluppo del genome editing?

Le terapie cellulari e geniche sono due aspetti che abbiamo affrontato nel corso del convegno. Sulle prime la convinzione comune è che siano al momento ancora in stand-by: non ci sono elementi sufficienti per considerarli di evidenza. La terapia genica ha invece già dato risultati, basta pensare ad alcune patologie monogeniche, la Sma (atrofia muscolare spinale).

Il salto di qualità sta nel fatto che uno dei modi in cui si può pensare di modificare la microglia è portare attraverso la terapia genica una modificazione del suo profilo di attività, in modo che abbia atteggiamento meno aggressivo. Da un punto di vista teorico è una strada possibile, bisogna lavorarci con tutte le diverse tecniche disponibili: può rappresentare una nuova frontiera. Tutto questo può succedere perché negli ultimi dieci anni c’è stato un forte sviluppo nella conoscenza dei meccanismi molecolari in gioco nelle malattie neurodegenerative: lo studio degli organoidi ha permesso di capire molto dell’interazione tra neuroni, glia di diverso genere. Dobbiamo aspettarci un salto di qualità, si respira aria di New Deal. Richiede un potere computazionale immenso e bisogna agire in questa direzione. È un futuro che è già presente.