Individuare i meccanismi cellulari e molecolari che contribuiscono all’invecchiamento, identificare i principali driver del processo, renderli un bersaglio terapeutico e migliorare, dunque, la qualità delle longevità. Sono questi alcuni degli obiettivi della biologia dell’invecchiamento e della geroscienza in un’ottica di prevenzione, riduzione dell’impatto delle malattie e quindi dell’assunzione di farmaci con risparmio di effetti collaterali, sostenibilità del sistema salute. Se ne è parlato al Milan Longevity Summit, da poco concluso.

I telomeri

Sono piccole porzioni di Dna poste alla fine di ogni cromosoma che potrebbero avere un ruolo cruciale nei processi di invecchiamento. Una condizione, quest’ultima, di per sé complessa, risultato di una perdita di omeostasi dovuta a una serie di fattori, prevalentemente all’accumulo di cellule senescenti. Ossia cellule disfunzionali, non più proliferative ma che acquisiscono alcune capacità negative come aumentare lo stato di infiammazione che espone alla probabilità di sviluppare malattie tipiche dell’invecchiamento.

«Nella cellula molto (quasi tutto) può essere riparato, anche a livello DNA, a eccezione di un danno irreversibile ai telomeri. Nel corso di replicazione – spiega Fabrizio D’Adda di Fagagna, Principal Investigator all’IFOM (AIRC Institute di Oncologia Molecolare) ETS – i telomeri si accorciano, fino al punto che le cellule li percepiscono come un danno del Dna, dunque un elemento “di rifiuto” per la replicazione. I telomeri rappresentano, in questo senso, una grande vulnerabilità per il genoma, in quanto irreparabili e insostituibili».

Tuttavia, la ricerca sta indagando come e se sia possibile agire in questo processo e una delle ipotesi, nella fase di evoluzione della cellula da giovane a senescente, è di intervenire “nel mezzo”, nel momento in cui si inizia ad accumulare il danno al Dna.

In buona sostanza, poiché non è possibile riparare all’accorciamento del telomero e a quanto ne consegue. L’obiettivo cruciale e prioritario è arrivare a controllare le conseguenze del danno indotto.

«Un possibile target – prosegue il ricercatore – sono i transcrittori dei telomeri, che vengono generati quando si verifica un danno a carico del telomero stesso, bersagliandolo con delle nuove molecole, gli oligonucleotidi antisenso, gli ASO.

La ricerca è quindi arrivata a mettere a punto una risposta selettiva al danno in cui per la prima volta è possibile dissociare il danno del Dna stesso dalle sue conseguenze. Abbiamo iniziato ad applicare gli ASO in alcuni contesti clinici tra questi la sindrome progeroide di Hutchinson-Gilford, causata da mutazioni del gene Laminina A, al fine di riparare il danno, riuscendo ad allungare la vita nei topi in trattamento.

Altre patologie che potrebbero beneficiare degli ASO includono la fibrosi polmonare, in cui l’impatto dell’accorciamento dei telomeri è chiaro e dove si ha un’attivazione della risposta al danno del Dna, quindi senescenza cellulare.

Alcuni studi che abbiamo condotto nel nostro laboratorio su polmoni di topi transgenici, mostrano in topi giovani con fibrosi (la malattia è progressiva nel tempo) non trattati e/o che non rispondono ad ASO una evoluzione della malattia, diversamente dal controllo possibile in topi in cui il trattamento è efficace. Ancora, in malattie ematopoietiche, del sangue, associate all’accorciamento dei telomeri; abbiamo osservato in topi sani le cellule ematopoietiche e misurato la loro capacità di proliferare e formare colonie, potendo osservare che tale capacità risulta sensibilmente ridotta in modelli con telomeri corti».

Telomeri, metilazione del Dna (orologi che misurano il trascorrere del tempo): la ricerca è impegnata a studiare se esistono nell’organismo diversi orologi biologici o un solo master clock, cioè un orologio capace di controllare tutti gli altri, ma anche a capire se la disfunzione dei telomeri può in qualche modo intervenire nell’orologio responsabile della metilazione del Dna.

Le cellule zombie

Sono scientificamente conosciute come cellule senescenti. «Sono cellule – spiega Laura Niedernhofer, direttore dell’Istituto di Biologia dell’Invecchiamento e Metabolismo, Università del Minnesota – che smettono di moltiplicarsi a causa di danni o stress ma che non muoiono.

Si è infatti scoperto che le cellule senescenti secernono citochine e una serie di molecole che stimolano l’infiammazione; in condizioni di normalità questo processo viene tenuto sotto controllo dal sistema immunitario ma con l’età si innesca l’immunosenescenza, l’organismo diventa meno efficiente e attivo nel rimuovere efficacemente questi “zombie”.

Di conseguenza le cellule si accumulano e guidano l’infiammazione che contribuisce all’insorgenza di alcune malattie tipiche dell’invecchiamento come il cancro, il morbo di Alzheimer, le patologie cardiovascolari». 

Le cellule zombie sono uno dei principali target delle geroscienze che stanno studiando soluzioni per aumentare i processi di clearance (eliminazione) delle cellule zombie. Tra i target di attenzione vi è il gene che codifica la proteina p16, iperattiva in molte cellule senescenti.

Nell’attesa che la scienza dia nuove risposte, nella vita pratica restano valide alcune strategie: una dieta corretta, mediterranea, ricca di alcuni alimenti come le fragole e bevande quali il tè verde, attività fisica e riduzione dei livelli di stress cronico che possono impattare sull’azione delle cellule senescenti.

«Dal punto di vista farmacologico destano attenzione – prosegue la dottoressa – i senolitici, molecole naturali o sintetiche che interagiscono in modo specifico con le cellule senescenti portando alla loro eliminazione.

Studi preclinici di laboratorio che abbiamo condotto su topi anziani, sottoposti a un trattamento con senolitici sembrano dare risultati di efficacia. Pertanto, concludendo possiamo dire che la geroscienza è un approccio innovativo per affrontare le comorbidità, che le cellule senescenti sono un indice dell’infiammazione, co-responsabile dell’insorgenza di diverse condizioni cliniche ma che possono essere eliminate con specifici farmaci, i senolitici, adatti alla somministrazione in età avanzata, in grado di favorire il miglioramento di fragilità e resistenza.

Diverse molecole appartenenti alla famiglia dei senolitici sono all’attenzione di trial clinici i cui risultati sono attesi fra qualche anno».

Le cellule spazzino

Dove c’è pulizia tutto funziona meglio. Se questo “imprinting” è vero nel contesto di vita quotidiana, domestico ad esempio, lo è ancora di più in un ambiente cellulare, molto piccolo, sovrappopolato da proteine molto vicine una all’altra, come liposomi e mitocondri, dove tutte devono avere la conformazione giusta, essere al posto giusto e nel momento giusto.

«Ogni cellula – spiega Ana Maria Cuervo, Distinguished Professor e co-direttore presso l’Institute for Aging Research, Alber Einstein College of Medicine di New York (US) – è dotata di un sistema di controllo molto rigido e sofisticato che gli consente di verificare che tutto funzioni a dovere, e in cui intervengono vari componenti, veri e propri chaperon, ispettori della qualità, sistemi proteolitici e una squadra di pulitori che si occupano di fare pulizia all’interno dell’ambiente cellulare. È, infatti, dimostrato che diverse malattie, come la degenerazione maculare o il mal funzionamento di alcune aree e facoltà come la funzione cognitiva, dipendono dalla mancanza di pulizia.

In condizioni normali la cellula che riceve un danno elimina la “spazzatura”, secondo un processo di autofagia, che diminuisce con l’invecchiamento. Ad esempio si è osservato che le cellule attivano lo “chaperon auto-mediate autophagy”, dove alcune proteine con alcuni specifici recettori sulla superficie dell’esosoma, prendono la spazzatura la portano in superficie e da qui eliminata. Un processo che diminuisce con l’età».

Studiato sia nel topo che nei roditori, questo processo è stato analizzato anche nell’uomo grazie alla creazione di specifici algoritmi che hanno consentito di osservare che individui sani tra 40-80, perdono parte dell’efficacia della pulizia, con esiti superiori in condizioni di patologia.

«Le conseguenze di questo fenomeno – chiarisce la professoressa – non vanno studiate solo in animali vecchi ma anche e soprattutto giovani eliminando il sistema di pulizia. Gli esperimenti effettuati su animali in cui il sistema di pulizia è efficace, rispetto ad animali in cui esso è deficitario, a pari età, sono più veloci, hanno meno cellule senescenti, un’attività migliore a livello di cellule staminali e un ritmo circadiano completamente ripristinato».

In funzione di queste evidenze la ricerca si orienterà a capire se persone anziane, con patologia, possono giovare da un sistema migliore di pulizia sfruttando, ad esempio, piccole molecole che possono attivare la pulizia in malattie dipendenti da un malfunzionamento della stessa, tra queste l’Alzheimer.

«Studi condotti su modelli murini – conclude Ana Maria Cuervo – in cui è stato possibile riprodurre alcuni aspetti dell’Alzheimer, ad esempio l’accumulo delle proteina Tau fosforilata nei pazienti, hanno mostrato benefico dalla somministrazione della proteina tau a favore di minor depressione e ansia, memoria migliore. Ciò ci induce a studiare se tali effetti possano essere riproducibili anche a livello cerebrale per ottenere una efficace pulizia».

In attesa di nuove evidenze dalla ricerca o di specifici farmaci, è possibile favorire l’azione di pulizia con un adeguato sonno e riposo (e in questa finestra potrebbe essere utilizzata per fare la pulizia in quanto le cellule del cervello utilizzano il tempo del riposo per fare un re-setting), rispettare il digiuno tra un pasto e l’altro per consentire alla cellula di radunare le energie e fare pulizia, seguire una sana dieta di tipo mediterraneo.

Tali interventi dovranno essere personalizzati sul singolo, sarà inoltre necessario ampliare gli studi su etnie differenti per arrivare a definire una baseline del concetto di pulizia, e aumentare il numero di composti che possono bersagliare il sistema di pulizia.