La malattia di Alzheimer (AD) è la forma più comune di demenza, ad oggi una fra le maggiori sfide sanitarie, sia per la una prevalenza in aumento a livello globale, funzionale all’invecchiamenti della popolazione – circa 500 mila casi solo in Italia – e per l’importate carico indotto, con impatto fisico, emotivo ed economico sui pazienti, le famiglie, quindi i care-giver, e sulla società in generale.
Nonostante sia stata scoperta da oltre un decennio, ad oggi non esiste ancora una cura disponibile per la AD e i meccanismi di insorgenza sono ancora in parte allo studio. La scienza e la ricerca si interrogano su possibili strategie di intervento.
I cannabinoidi e gli oressigenici sono fra questi, secondo gli ultimi studi di cui uno pubblicato sull’International Journal of Molecular Science e un lavoro in press su BioRxiv.
Le attuali conoscenze
Multifattoriale, dovuta cioè all’interazione di più eventi in concorrenza: disfunzione mitocondriale, stress ossidativo, squilibrio del metabolismo del ferro, neuroinfiammazione.
L’eziologia e l’approccio all’AD, malattia neurodegenerativa progressiva caratterizzata da placche senili extracellulari composto da peptidi fibrillari amiloide-beta (Aβ), contenenti grovigli neurofibrillari intracellulari, che causa atrofia cerebrale e interruzione della funzione della memoria episodica, sono complessi, tali da richiedere nuove conoscenze e strategie innovate, che puntino cioè a specifici bersagli terapeutici.
In questo contesto destano attenzione i GPCR, o recettori accoppiati a proteina G, ovvero proteine localizzate sulla superficie cellulare che riconoscono le sostanze extracellulari e che trasmettono segnali attraverso la membrana cellulare, i quali si qualificherebbero come possibili target per contrastare la malattia, tramite il ricorso a specifiche sostanze. In particolare cannabinoidi e oressigenici. Recenti studi hanno evidenziato che i loro recettori sono GPCR capaci di formare complessi eteromerici, particolari strutture che avrebbero un ruolo rilevante nello sviluppo dell’AD.
Cannabinoidi e oressigenici sarebbero in qualche misura interagenti, più precisamente vi sarebbe evidenza che da un lato l’iperattivazione del sistema delle orexine si associ all’interruzione del ciclo sonno-veglia e all’accumulo da un lato di peptidi Aβ e che, dall’altro la sovraespressione dei recettori dei cannabinoidi, in un ambiente neuroinfiammatorio, possa favorire effetti neuroprotettivi.
Al momento sono studi sperimentali, condotti su topi da cui si evince che in colture primarie microgliali, il blocco di OX1R possa contribuire a abolire gli effetti dannosi dell’iperattivazione di OX1R nell’AD. Quindi un potenziale bersaglio terapeutico.
Altri studi
Il Δ9-tetraidrocannabinolo (THC), da altri studi di letteratura, sembra profilarsi come un ulteriore possibile e promettente agente terapeutico, tuttavia da utilizzare a dose ultra bassa (ULD-THC) in funzione degli importanti effetti collaterali che potrebbe generare.
Tale ipotesi fa seguito a precedenti evidenze secondo cui una singola iniezione di ULD-THC sembrerebbe capace di elevare i livelli di Sirtuina-1 (Sirt-1) nel cervello, migliorando il funzionamento cognitivo in diversi modelli di lesioni cerebrali e nei topi che invecchiano naturalmente. Quindi, l’ULD-THC potrebbe contribuire a prevenire, fino a invertire la patologia dell’AD.
Uno studio in press, ad opera di ricercatori israeliani, farebbe osservare in un modello murino per AD trattato con una singola iniezione di ULD-THC una riduzione dei disturbi cognitivi.
Pertanto se ulteriori studi dovessero confermare questi dati preliminari, si potrebbe profilare l’ipotesi di utilizzare l’ULD-THC in una preparazione farmaceutica per il trattamento dei pazienti con AD, con successiva possibilità di applicazione in clinica.
Fonti
Rebassa JB, Capó T, Lillo J et al. Cannabinoid and Orexigenic Systems Interplay as a New Focus of Research in Alzheimer’s Disease. J. Mol. Sci. 2024, 25, 5378. DOI: doi.org/10.3390/ijms25105378
Nitzan et al. BioRxiv, 2023. In press