Test PCR, in Italia ne è in discussione la veridicità scientifica

Microscopic view of the crown structure virus

La mancanza di regole condivise sui kit diagnostici (relative ai troppi cicli di amplificazione) altera il risultato di positività/negatività al Covid. L’allarme arriva da Aifa, mentre l’Oms chiede un giro di vite per l’uso indiscriminato dei tamponi sugli asintomatici

L’efficacia dei test PCR (Polymerase Chain Reaction) è sotto la lente d’ingrandimento degli esperti del settore a livello nazionale e internazionale. Questa tecnica di biologia molecolare, che consente la moltiplicazione (amplificazione) di frammenti di acidi nucleici con un andamento esponenziale (a 30 cicli il materiale genetico è amplificato un miliardo di volte) ed è valsa il Nobel per la Chimica a Kary Mullis nel 1993, potrebbe aver fornito numeri dei contagi da SARS-CoV-2 molto più alti rispetto a quelli reali. Un concetto espresso anche dal Presidente di Aifa Giorgio Palù, il quale ha affermato che trovare un soggetto positivo alla PCR non vuol dire malato, ma nemmeno contagioso. «Si è detto che non erano affidabili i test, ma neanche la PCR era affidabile, nessuno l’ha mai validata, è nato un test senza un gold standard, è stato fatto ex post».

Sembra incredibile che a un anno e mezzo dalla pandemia continui a persistere questo stato di ambiguità. Anche perché è la positività o meno al test che determina la diagnosi di Covid (una sindrome), decessi compresi. Una comunicazione dell’Associazione microbiologi clinici italiani del 28 agosto 2020 del resto metteva in guardia: «La positività con valori di Ct elevati (indicare la soglia individuata come ultimo percentile o in mancanza di questa informazione indicare maggiore di 35) in più del 95% dei casi non è associata a presenza di infettività». Peccato che in caso di positività accertata il referto non indica nel dettaglio a quanti cicli di amplificazione sia stato eseguito il test. Lo scorso giugno il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, intervistato dal Corriere della Sera, aveva fatto notare che sotto le centomila copie di Rna non c’è sostanziale rischio di contagio, secondo un lavoro pubblicato da Nature e confermato da diversi altri studi.

Fabio Franchi, infettivologo
Fabio Franchi, infettivologo

«Sul test di riferimento ruota la diagnosi, che in sintesi è: qualsiasi condizione patologica, e non, associata a un test positivo. Il che è chiaramente un modo distorsivo di interpretare la realtà e del tutto irrazionale – spiega Fabio Franchi, infettivologo – Il test di riferimento (tampone-PCR) non è mai stato validato e non è mai stato standardizzato, cioè viene usato in modo diverso nei diversi laboratori, con kit differenti che spesso non vanno d’accordo tra loro e spesso neanche con sé stessi. E non è stata neppure dimostrata alcuna correlazione causale tra la positività del tampone (equiparata a presenza virale) e la malattia (polmonite interstiziale) – aggiunge – non solo secondo i postulati di Koch, ma pure in base a quelli di Evans, Mill e Bradford Hill. Più semplicemente, la positività del tampone non è necessaria (sono molti i casi negativi di polmonite interstiziale bilaterale) né sufficiente (la positività può esserci anche con buona salute persistente) per avere la malattia. Bisognerebbe eseguire un grande reset su tutta la materia. Sul Covid hanno pubblicato più lavori scientifici in un anno e mezzo che in 36 anni sull’Hiv-Aids: oltre 150 mila».

Le conseguenze legali

Il 21 settembre l’Iss e il Ministero della Salute dovranno rispondere avanti il Tribunale Civile di Roma sulla questione cruciale della soglia dei cicli della PCR. Nella causa collettiva, portata avanti da centinaia di soggetti, figurano anche una cinquantina di medici. È paradossale che nel profluvio di numeri sul Covid, il Ministero della Salute e l’Iss non abbiano mai informato sul numero dei cicli della PCR adottati dai laboratori autorizzati. «Non c’è un protocollo: questa è una delle contestazioni che abbiamo mosso – afferma l’Avvocato Mauro Sandri – L’Iss ha delegato a laboratori predeterminati, pubblici o privati, l’acquisto di questi kit e ha lasciato spazio a loro. L’Ecdc, a nostra specifica domanda su quale sia il protocollo idoneo, con risposta agli atti, ha rimandato a uno studio (ndr, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7543373/pdf/ciaa1491.pdf) che indica un massimo di 24 cicli. Ogni ciclo in più, dice, determina un errore di circa il 30%. Alcuni laboratori regionali italiani, autorizzati dall’Iss, hanno scritto che amplificavano a oltre 40 cicli. Abbiamo anche una dichiarazione dell’Asl Regione Emilia-Romagna che indica 41. Il Ministero non ha contestato questi dati e, dunque, i documenti sono gli atti: si limita a una difesa che si fonda sul principio di precauzione, ma così siamo di fronte a un’alterazione totale della verità scientifica».

«Nel 2020 – rimarca Sandri – doveva entrare in vigore la normativa, già approvata, sui tamponi PCR, che dovevano essere tutti certificati. È stata, invece, prorogata al 2023. Con il collega Giulio Marini abbiamo fatto una richiesta alla Commissione europea di uniformità. Sono già uscite due sentenze, una Portogallo e l’altra in Austria, che hanno contestato l’insussistenza di fondamento dell’analisi PCR fatte in quei Paesi. È chiaro che non si vuole arrivare all’uniformità perché questo determinerebbe il tracollo dei casi di contagio. E verrebbe meno anche la politica dei vaccini».

Mauro Sandri, Avvocato

Oms: strategia non raccomandata su chi non ha sintomi

Secondo l’accusa, l’Italia avrebbe violato non solo i protocolli dell’Ecdc (European Center for Disease Control), ma anche quelli dell’Oms. «Nel settembre e dicembre 2020, dal monitoraggio, l’Oms ha rilevato che c’erano troppi falsi positivi e la PCR così come era utilizzata non poteva essere ritenuta attendibile. A gennaio 2021 ha scritto che non è sufficiente come strumento diagnostico se fatta con unico tampone. Pertanto, il test deve essere ripetuto con altro strumento (altra PCR con marca diversa) sull’asintomatico positivo (che, dice l’Oms, rappresenta il 96% dei casi). Ha poi precisato che è necessaria una diagnosi medica. Nessuno di questi requisiti è stato rispettato dal nostro Paese». Ma c’è di più l’Oms, in una recente raccomandazione, ha chiesto un giro di vite sull’uso indiscriminato dei tamponi agli asintomatici. «Il 25 giugno l’Oms ha cambiato i protocolli sui tamponi: ha statuito l’inutilità sugli asintomatici. Lo screening di massa agli asintomatici non è una strategia raccomandata, a causa dei costi significativi e della mancanza di dati sulla sua efficacia operativa, dice l’Oms. Tutti gli Stati aderenti dovranno ora adeguarsi. La Germania è il primo Stato ad aver dichiarato che d’ora in avanti, per misurare il gradiente di gravità del Covid, si riferirà ai ricoveri in terapia intensiva». La decisione va a impattare anche sul regolamento del Green Pass, che prevede il tampone entro le 48 ore per una serie di accessi a luoghi al chiuso per i non vaccinati. «Impugneremo anche il Green Pass in quanto il tampone è illegittimo. Faremo un provvedimento di urgenza, perché questa norma viola i protocolli cui l’Italia è tenuta ad adempiere, oltre la Carta dei diritti dell’uomo, quella di Nizza e l’articolo 3 della Costituzione».

Dall’Inghilterra agli Usa: cosa succede all’estero

Il muro di gomma eretto attorno alla questione cicli della PCR comincia però a essere perforato. Recentemente, ha fatto sapere il professor Stefano Scoglio, direttore del Centro di ricerche nutriterapiche di Urbino, il Manchester University NHS Foundation Trust (il più grande del Regno Unito, che gestisce 10 ospedali), rispondendo a un Freedom of information act, ha comunicato che utilizza 45 cicli. «La letteratura sul tema, almeno 4 articoli scientifici pubblicati nel 2020 e mai smentiti – informa Scoglio – dice che a 25 cicli si ha il 30% di falsi positivi e a 35 il 100%». Un’informativa dei Cdc americani, indirizzata ai laboratori di riferimento, ha invitato a non andare oltre i 28 («Clinical specimens for sequencing should have an Rt- PCR Ct Value ≤28»). L’Agenzia svedese per la sanità pubblica con una nota ha preso le distanze da letture affrettate su positività equivalenti a contagiosità. «La tecnologia PCR utilizzata nei test per rilevare i virus non è in grado di distinguere tra virus capaci di infettare cellule e virus che sono stati neutralizzati dal sistema immunitario e, pertanto, questi test non possono essere utilizzati per determinare se qualcuno è contagioso o meno».

 

Leggi anche:
Covid, i numeri vanno letti nella loro interezza