Dottor Fasani, sono ormai diversi anni che esercita come medico omeopata. Quali devono essere, secondo lei, i rapporti tra medicina occidentale e naturale?
Quando, qualche decennio fa, omeopatia, medicina tradizionale cinese e ayurvedica hanno iniziato a diffondersi in Europa e in Occidente erano viste come “alternative” alla medicina ufficiale allopatica: erano alternative nell’approccio al paziente, come erano naturali e non chimici i medicinali utilizzati. Oggi questa visione va rivista perché le medicine non convenzionali si stanno evolvendo anche tenendo conto delle ricerche e degli avanzamenti della medicina ufficiale. Posso citare a questo proposito un settore dell’omeopatia, quello che fa riferimento all’omotossicologia, che utilizza anche rimedi originati da farmaci in bassa diluizione centesimale e perfino decimale, come ad esempio le citochine, per modularne l’azione e diminuirne gli effetti collaterali, basandosi sulle conoscenze più avanzate dell’immunologia. L’omeopatia si è evoluta dalla sua nascita e vanno riconosciuti gli sforzi che vengono fatti nel campo degli studi clinici per la validazione dei rimedi omeopatici affinché vengano allineati agli standard richiesti dalla comunità scientifica. D’altro canto alcune specialità tipicamente occidentali stanno utilizzando in misura sempre maggiore strumenti come l’agopuntura, e, per alcune patologie semplici, anche i medici più legati alla medicina occidentale stanno iniziando a consigliare rimedi naturali come il mirtillo americano nel caso di cistiti o i fitoestrogeni nella menopausa. È più giusto quindi considerale medicine complementari ed è molto importante che chi le esercita abbia una formazione medica universitaria allopatica. In Occidente le medicine non convenzionali sono armi in più che consentono di affrontare problemi di salute o malattie che i trattamenti allopatici non risolvono in maniera soddisfacente, anche a causa degli effetti collaterali causati dalla loro azione a volte troppo invasiva. Le terapie complementari hanno un impatto meno violento sul malato perché stimolano una risposta modulata che dà al paziente la possibilità di reagire raggiungendo un nuovo equilibrio.
Farmaci allopatici in omeopatia. Ci può spiegare meglio?
Le molecole che costituiscono alcuni farmaci allopatici, come le citochine o i farmaci biologici, sono in grado di interagire generalmente con uno specifico recettore di un messaggero responsabile, in concorso con altri messaggeri, dei meccanismi di regolazione e funzionamento del nostro organismo. La medicina convenzionale utilizza queste molecole a un dosaggio elevato, molto superiore a quello presente in natura: di conseguenza si può creare un blocco o un’eccessiva stimolazione di un singolo elemento del sistema di autoregolazione dell’organismo, che squilibra di conseguenza tutti gli altri che dipendono dal sistema alterato. Il loro stesso utilizzo, ma a basso dosaggio, come quello che avviene con alcuni rimedi omotossicologici in diluizione fino alla 4 centesimale o in decimale, può permettere di intervenire cercando di stimolare i meccanismi di modulazione progressiva e di recupero del livello di funzionamento fisiologico dei diversi sistemi dell’organismo. Ho potuto capire quanto sia importante l’impatto del farmaco sulla nostra fisiologia grazie all’esperienza raggiunta nel Servizio di Psicodiagnostica e di Psicologia clinica dell’Ospedale di Paderno Dugnano di cui era responsabile il dottor Flavio Mombelli, medico molto importante per la mia formazione, che mi ha avvicinato alla psicofarmacologia classica e mi ha mostrato come i farmaci utilizzati in psichiatria possano avere effetti molto diversi se usati a un dosaggio inferiore a quello usualmente raccomandato ed in associazione tra diversi principi attivi. Questo non ha nulla a che fare con l’omeopatia in quanto si tratta dell’utilizzazione di farmaci veri e propri, ma pone l’attenzione su quanto sia rilevante in alcuni casi cercare di intervenire ricercando un’azione di modulazione dolce ed articolata che rispetti la complessità del funzionamento del nostro organismo, in questo caso del cervello, piuttosto che impattarlo con relativa “violenza”. A dosi “ridotte” è possibile usare in combinazione molecole con diverso meccanismo d’azione per modulare i neurotrasmettitori coinvolti nella malattia, rispettando peraltro proprio la loro stessa complessità ed evitando per quanto possibile gli effetti collaterali causati da un’eccessiva invasività dei dosaggi più elevati e dallo squilibrio causato dall’azione concentrata su un solo neurotrasmettitore. I farmaci usati in psichiatria sono spesso mirati a un singolo neurotrasmettitore, ma poiché il cervello funziona grazie a una complicata interazione di più messaggeri si rischia di bloccare o sovrastimolarne una parte e provocare effetti indesiderati. Utilizzando più farmaci ma a dosaggio relativamente basso si può cercare di modulare più sistemi di trasmissione contemporaneamente riuscendo ad avere una risposta più “naturale” da parte di tutto il sistema.