Ci vuole innanzitutto chiarezza: la cannabis va correttamente conosciuta in termini di tipologia, finalità di utilizzo, differenziazione dei prodotti, profilo di sicurezza. Principi, ancor più che concetti, che ne consentono una somministrazione oculata, appropriata e accurata, al paziente giusto e nelle modalità per ricavarne un reale beneficio clinico.
Si è discusso sul tema in occasione dell’evento “Cannabis e Sanità. Ripartire dalla Scienza”, promosso da AdnKronos Comunicazione con il supporto non condizionato di Jazz Pharmaceuticals.
La questione legislativa
La cannabis è sicura? Intesa come “prodotto” in quanto tale sì: per la Legge Italiana, è controllata. È cioè (s)oggetta a leggi che ne disciplinano la coltivazione e l’uso, definendone anche le modalità di impiego: in ambito farmacologico, dove fiori e foglie sono spesso un ingrediente nella formulazione delle molecole per l’alta presenza di sostanze farmacologicamente attive, definite cannabinoidi, tra queste il cannabidiolo (CBD) e il tetraidrocannabinolo (THC).
In contesto cosmetico, industriale viene usata per la preparazione di olii, cibo e altri prodotti, compreso le essenze per lo svaping, in cui si utilizzano in prevalenza i semi. Inoltre, sono definiti i limiti: in Europa, ogni stato membro è tenuto, proprio perché la sostanza è controllata, a definire i livelli di TCH ammessi nelle coltivazioni, per l’Italia è dello 0,2%.
Varietà e differenze
Esistono tre possibili fonti di cannabinoidi: i fitocannabinoidi, unicamente presenti nella pianta della cannabis, gli endocannabinoidi, prodotti dall’organismo, sono molecole che interagiscono con i recettori presenti a livello del sistema nervoso centrale (CB1) e periferico (CB2) e che si attivano anche in presenza di alcuni fitocannabinoidi: l’anandamide e il 2-AG (2-arachidonoilglicerolo), sono quelli attualmente studiati.
«Il THC – spiega il Professor Giorgio Racagni, Past President SIF (Società Italiana Farmacologia) – agisce come agonista sul recettore CB1 favorendo una azione antiemetica, antinfiammatoria, analgesica ed anche stimolante ed euforizzante. Mentre il CBD svolge un’azione antiepilettica attraverso il blocco dei recettori GPR55, la desensibilizzazione dei canali TRPV1 e l’inibizione del re-uptake dell’adenosina».
Infine, terza fonte, sono i cannabinoidi sintetici: sviluppati e sintetizzati in laboratorio, sono progettati per replicare o assomigliare ai cannabinoidi naturali e/o per interagire con i recettori CB1 e CB2 dei cannabinoidi.
I derivati
Vanno distinti in tre macrocategorie: la prima cui appartengono i farmaci a base di cannabis approvati dalle Autorità regolatorie. «Attualmente disponiamo di due farmaci a base di cannabidiolo – dichiara il Professor Marco Pistis, Ordinario di Farmacologia presso l’Università degli Studi di Cagliari – uno costituito da una miscela di THC e di CBD in proporzione 1:1 che è approvato nel trattamento del dolore nella spasticità e nella sclerosi multipla ed è prescrivibile da neurologi. Il secondo è costituito solo da CBD, ad azione antiepilettica, ed è usato nel trattamento di alcune forme di epilessia resistenti alla terapia tradizionale (sindrome di Dravet, di Lennox Gastaut e sclerosi tuberosa), anch’esso prescrivibile solo dai neurologi presso centri specialistici. La seconda classe riguarda prodotti a base di cannabis, definiti cannabis terapeutica o medica, non approvati dalla Autorità regolatorie: si tratta di preparazione magistrali, allestite dal farmacista, su prescrizione medica e secondo precise regole della Farmacopea. Questi prodotti possono essere prescritti da tutti i medici, di medicina generale, specialista o chiunque sia abilitato alla prescrizione, scegliendo tra una cannabis coltivata in Italia o anche di importazione».
Ciò che differenzia il tipo di cannabis è il contenuto di principio attivo: esistono varietà ad alto contenuto di THC e a basso contenuto di CBD o viceversa, quindi il medico sulla base delle caratteristiche delle patologie e della tipologia del paziente dovrebbe prescrivere la varietà di cannabis più adatta a precise e specifiche indicazioni e bisogni.
Infine, chiudono la gamma di derivati della cannabis, i prodotti di consumo contenenti cannabidiolo venduti al pubblico liberamente in negozi specializzati: sono prodotti molto eterogenei a base di CBH e teoricamente a bassissimo contenuto di THC o assente; poco regolamentati (non sono oggetto di processi autorizzativi o di controllo), vanno intesi come prodotti di automedicazione, utilizzabili pertanto senza controllo medico, e che presentano rischi, quali reazioni avverse e interazioni con altre terapie, perché il CBD è metabolizzato dagli stessi enzimi che metabolizzano i farmaci.
La sicurezza
Oltre che dal Regolatorio, è determinata anche dall’appropriatezza prescrittiva: la cannabis dovrebbe essere sempre somministrata da un medico formato in materia che funge da garante sia sulla corretta diagnosi a monte, sia sull’interazione tra farmaci ed eventuali effetti collaterali.
«La cannabis – afferma la Dottoressa Laura Tassi, Presidente LICE (Lega Italiana Contro l’Epilessia) – non viene mai prescritta da sola, ma insieme ad altre terapie e ciò richiede che lo specialista abbia una formazione adeguata all’utilizzo della cannabis e che monitori attentamente il paziente anche nel follow up, modificando eventualmente il dosaggio sulla base della risposta terapeutica».
«L’appropriatezza prescrittiva – sottolinea il Professor Emilio Russo, Ordinario di Farmacologia all’Università Magna Grecia di Catanzaro – potenzia il beneficio di questi farmaci, rispetto al rischio. In caso contrario, questo rapporto si sbilancia a svantaggio di una minor efficacia o dello sviluppo di tossicità e effetti collaterali. In caso di cannabis medica, invece, dove in alcuni casi è riconosciuta una efficacia, ma non confermata da studi clinici e/o di cui non si conosce il profilo di tollerabilità di alcune formulazioni o estratti, subentra una responsabilità medica, in cui il medico prescrittore espone il paziente a un rischio che non è perfettamente noto».
Il tema dell’appropriatezza prescrittiva è cruciale anche per il regolatore: «Una prescrizione farmacologica può essere considerata appropriata se effettuata all’interno delle indicazioni cliniche per le quali il farmaco si è dimostrato efficace e delle indicazioni d’uso (dose e durata del trattamento) – commenta la Professoressa Marcella Marletta, Esperta di Sanità Pubblica e già Direttore Generale della Direzione dei farmaci, dispositivi medici e della sicurezza delle cure del Ministero della Salute -. Tema ancor più centrale quando si parla di cannabis medica, dove è opportuno che siano mantenute o implementate laddove mancanti misure che garantiscano l’appropriatezza prescrittiva di questi prodotti».
Infine, la conoscenza del paziente, non può prescindere dall’appropriatezza prescrittiva, che parte da una accurata anamnesi, ad esempio una storia di abuso o di malattie psichiatriche, controindicano la prescrizione di cannabis terapeutica che potrebbe esacerbarne le manifestazioni o indurne un abuso.