Fame, come sintomo e bisogno primordiale per la sopravvivenza, fame emotiva come nutrimento di un desiderio di cibo generato dalla mente per appagare una carenza, un malessere a livello, appunto, emozionale. Entrambe, la fase fisiologica e la fame emotiva, saturano una necessità ma i meccanismi di innesco e le sensazioni che conseguono all’atto del cibarsi danno luogo a reazioni diverse e contrastanti.

Se ne è parlato a qualche giorno dal termine della Settimana Mondiale del Cervello in un evento dedicato dal titolo: “Nutrire la mente tra cibo e emozioni”.

Le emozioni tra cuore e cervello

Partiamo con considerare il “prodotto”, l’emozione, definita classicamente come una risposta dell’organismo a uno stimolo inatteso e improvviso. Descrizione, in un certo qual modo sufficientemente generalizzata da portare a intendere l’emozione come un tutt’uno o sovrapponibile allo stato d’animo e al sentimento. Tre concetti che, in realtà, sono invece ben distinti: l’emozione, di natura reattiva, insorge a seguito di uno stimolo e spesso ha breve durata, sentimento e stato d’animo, invece, possono scaturire anche senza un trigger scatenante e una volta insorti possono permanere per un tempo più lungo rispetto all’emozione.

A loro volta le emozioni vanno poi ulteriormente differenziate in emozioni primarie, innate e universali, ipotizzando cioè una reazione comune e univoca di fronte a uno stesso evento, ad esempio il sorriso di un bambino si suppone provochi nel contesto comune e collettivo gioia, mentre le emozioni secondarie, acquisite e variabili, spesso si legano a un contesto sociale e/o sono condizionate da uno status culturale, con manifestazioni differenti e fortemente dipendenti dalla natura e dallo “stimolo” di base che le ha generate.

Emozioni e cibo

Benché tra i due esita un fil rouge, le emozioni che portano a mangiare possono avere una causa sensibilmente diversa. Si può, infatti, ricercare il cibo per una fame fisica, fisiologica, per un bisogno funzionale o viceversa per un bisogno emotivo dove lo stimolo della fame è, in realtà, indotto/condizionato dalla mente. La diversa natura di fondo è espressione, dunque, di caratteristiche insite ben differenzianti dei due bisogni di cibo: la fame fisica è graduale, si soddisfa con qualsiasi alimento introiettato e una volta appagata si associa a un senso di pienezza più spesso piacevole e/o neutro, e generalmente compare in momenti specifici della giornata.

La fame emotiva, all’opposto, è improvvisa e quindi richiede che sia placata altrettanto velocemente, va alla ricerca cibi specifici, e una volta saziata induce un senso di colpa, comunque una sensazione di pienezza sgradevole. Infine compare casualmente, spesso a seguito di stress e stanchezza, “emozioni” quindi negative.

Ulteriore aspetto distintivo, la fame emotiva, in quanto indotta da uno stimolo cerebrale, comporta spesso la perdita di autocontrollo che può essere tenuto a bada dapprima sapendo riconoscere e distinguere la fame fisiche da quella emotiva e di conseguenza le diverse emozioni associate. Azioni di riconoscimento e “presa di possesso” che solo alla base dell’efficace controllo delle emozioni stesse, ma la criticità sta nel fatto che alcune tipologie di emozioni sono “condivise” dalla fase fisica e da quella emotiva. 

Trasformazione del sentimento

Mangiare viene considerato uno dei principali atti d’amore che la persona fa verso se stessa, che tuttavia nella fame emotiva si trasforma in occasione di ansia, associata nel luogo culturale comune a terminologie quali privazione, colpa, vergogna.

La fame emotiva porta così allo sforzo-richiesta di assunzione di diete rigide, con l’eliminazione di una serie alimenti, all’origine in molti casi di meccanismi di autosabotaggio. La privazione di cibi amati, autoimposta, e la negazione protratta favorisce la “stanchezza” fino a portare la persona in dieta ferrea a cedere nuovamente alla ricerca e al bisogno compulsivo di quegli stessi cibi a cui si era rinunciato.

Tali dinamiche sono alla base dello sviluppo di comportamenti maladattivi in cui cioè alla disregolazione alimentare si associa una disregolazione emotiva, sfruttati a livello cognitivo per regolare emozioni negative tramite l’attivazione di tre diversi processi.

  • Il primo: la ruminazione, cioè il rimuginamento del pensiero verso tutto ciò che relativamente al cibo deve esser fatto o non fatto nell’arco della giornata: ad esempio, saltare il pasto dopo una abbondante colazione o a cena se si è ceduto alla tentazione di introiettare qualche cosa a pranzo cui si concatenano emozioni negative.
  • Il secondo: la soppressione del pensiero, con un avvitamento verso tutto ciò che induce ansia associata al concetto di alimentazione nel senso più ampio.
  • Terzo: la catastrofizzazione che in ambito di nutrizione si traduce nel convincimento di non poter cambiare abitudini alimentari scorrette, radicate in maniera “genetica”, nel proprio modo di confrontarsi con il cibo.

Mindfulness

Applicata alla nutrizione, definita appunto mindful eating, aiuta a risolvere i meccanismi della fame emotiva. Specificatamente il protocollo MB-EAT (Mindfulness Based-Eating Awareness Training, Training per la Consapevolezza Alimentare basato sulla Mindfulness) si fonda su tre approcci teorici: modelli cognitivo-comportamentali della regolazione di cibo che enfatizzano la reciproca interazione fra processi di controllo psicologici e fisiologici. Approccio che prevede di accompagnare la persona in modo graduale a mutare la sua visione del cibo da evento patogeno a un bisogno fisiologico sano.

Teoria dell’autoregolazione di Schwartz (1975), che sostiene che il soggetto sia in grado di disciplinare i propri comportamenti e agire poi autonomamente. Su questo principio la persona viene esposta, anche in maniera didattica, a prendere la giusta consapevolezza di quanto ruota attorno al cibo, oppure facendo leva su un lavoro di sradicamento di aspetti/condizionamenti di tipo psico-educazionale (non ci si alza da tavola fino a che non si è finito quanto c’è nel piatto) o culturali (non finire il cibo nel piatto è indicativo per la persona ospitata/ospite di scarso gradimento). 

Modelli neuro-cognitivi e terapeutici, mediati dalla consapevolezza (mindfulness). In relazione a quest’ultima, vi sono evidenze emerse dall’utilizzo di tecniche di neuroimaging che la tecnica produce differenze sull’ispessimento della corteccia prefrontale mediale, responsabile delle funzioni esecutive (memoria, attenzione, problem solving); induce la riduzione dell’attività dell’amigdala di fronte a stimoli minacciosi, così come dei livelli di cortisolo e, infine favorirebbe una minor inferenza automatica sul controllo cognitivo, portando così a una nutrizione basata sull’alimentazione consapevole.

La mindfulness è, dunque, una pratica specifica che deve essere attuata e seguita da esperti, e che può rivelarsi efficace nel condurre le persone a vivere un rapporto corretto con il cibo e con se stessi.